IL PEGGIOR NEMICO

Un epidemiologo americano di fama mondiale condivide la sua esperienza dal fronte della guerra alle malattie infettive e spiega come prepararsi alle epidemie che possono sfidare l’ordine mondiale.

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Guardiamo in faccia la realtà.

Un fattore decisivo in qualunque pandemia è una leadership capace, e la prima responsabilità del presidente o del capo di una nazione diventa diffondere informazioni precise e aggiornate fornite da esperti di salute pubblica, non da funzionari schiavi dell’agenda politica. È di gran lunga consigliabile ammettere di non sapere qualcosa ma di essere al lavoro per conoscerla, piuttosto che parlare a vanvera e rischiare di farsi smentire dal prossimo notiziario. Se un presidente sacrifica la propria credibilità, i cittadini non sanno più a chi appellarsi. Se invece, come dimostrato da numerosi studi, l’opinione pubblica riceve informazioni oneste e dirette, raramente si scatena il panico e tutti imparano a serrare le fila.

Il 20 gennaio 2020, sulla scorta delle inequivocabili caratteristiche di trasmissione del virus, il Centro per la ricerca e le politiche sulle malattie infettive dell’Università del Minnesota (CIDRAP) dichiarava che la Covid-19 avrebbe causato una pandemia. Come mai all’Organizzazione Mondiale della Sanità è occorso fino all’11 marzo per dichiarare lo stato di pandemia globale? Siamo convinti che questo ritardo abbia indotto molti a credere che esistessero ancora buone possibilità di contenere il virus, distraendo così le autorità in modo tanto sfortunato quanto inutile da ciò che era invece indispensabile fare: pianificare le misure atte a indebolirlo prima e a conviverci poi. Questo tipo di incertezza e confusione deve farci comprendere che per valutare futuri nemici mortali sarà necessario adottare un approccio nuovo e migliore.

La prima, fondamentale domanda a cui rispondere è: come siamo finiti in questa crisi? Come spesso accade nei disastri, si è trattato della convergenza di più fattori. Per cominciare, nei quasi vent’anni trascorsi dalla SARS il mondo è arrivato a dipendere sempre di più dalla Cina sul piano delle risorse produttive.
Oggi come oggi, la catena di fornitura, produzione e distribuzione delle merci è improntata al modello just-in-time (JIT). Ma un conto è non riuscire a procurarsi tempestivamente il televisore o lo smartphone perché una fabbrica nell’Hubei o nel Guangdong ha dovuto chiudere per lo scoppio di un’epidemia; un altro è non poter rifornire ospedali e farmacie di medicinali salvavita che garantiscono il benessere quotidiano di milioni di persone affette da patologie croniche e acute, o i presidi di protezione individuale che salvaguardano il personale sanitario a contatto diretto con i pazienti colpiti da Covid-19.

Basta riflettere su questa semplice statistica: poco prima dello scoppio della pandemia di H1N1 del 2009 il CIDRAP condusse un’indagine presso i farmacisti ospedalieri e i medici delle terapie intensive e dei pronto soccorso nazionali. Un aggiornamento di quella indagine ha evidenziato l’esistenza di oltre 150 medicinali salvavita, fondamentali per svariate patologie e frequentemente utilizzati negli Stati Uniti, senza i quali molti pazienti morirebbero nel giro di ore. In tutti i casi si tratta di generici, molti dei quali prodotti, interamente o nei loro principi attivi, in India o in Cina. Allo scoppio della pandemia di Covid-19, anche in condizioni normali, 63 di questi erano già in esaurimento o non disponibili in tempi brevi nelle farmacie: ecco dunque fino a che punto siamo vulnerabili. E quando epidemie e quarantene mettono a riposo le fabbriche cinesi e modificano o interrompono le rotte di approvvigionamento, se i carrelli delle medicine sono vuoti è ridotto all’impotenza anche il più moderno degli ospedali dell’Occidente. In altre parole, dipendere dall’efficienza della produzione cinese a basso costo può tradursi, quale effetto secondario della Covid-19 e di future pandemie, in pesanti perdite di vite umane.

L’economia della sanità moderna impone inoltre alla maggior parte degli ospedali di conservare scorte estremamente limitate di presidi di protezione individuale, tra cui respiratori e mascherine N95. Come potremo dunque reagire a una nuova pandemia se non saremo in grado di proteggere in primis il personale sanitario che dovrà curare un numero di malati superiore alle forze dei nostri nosocomi, già sotto pressione in condizioni normali? Il destino degli operatori sanitari costituirà di fatto il parametro su cui misurare la nostra capacità di risposta a questa e a future crisi e, se non faremo tutto quanto è nelle nostre possibilità per proteggerli, da curanti si trasformeranno in pazienti e finiranno a loro volta per sovraccaricare il sistema.
Nessuno al mondo si aspettava che la Cina potesse entrare in un lockdown di mesi e non essere in grado di rifornirci di tanti prodotti vitali nell’emergenza, ma questa non può essere una giustificazione. Se vogliamo seriamente prevenire analoghe minacce future, i governi dovranno impegnarsi a livello internazionale per rilocalizzare e diversificare la produzione di farmaci, attrezzature e beni di prima necessità. Dobbiamo imparare a pensare come fanno le compagnie assicurative, che non evitano i disastri ma ne mitigano le conseguenze.
Indubbiamente ciò implica un aumento dei costi, ma è anche l’unico modo per garantire una sponda solida nel momento in cui la pandemia colpisce. Quando chiusure, cancellazioni e quarantene diventano la norma, occorre poter disporre dei mezzi per mantenere in funzione le catene produttive e distributive di farmaci e altri prodotti essenziali come aghi e siringhe, giù giù fino a cose banali come le sacche di soluzione fisiologica.

Non solo dobbiamo quindi potenziare la capacità produttiva e i servizi in tutto il mondo, ma dobbiamo anche investire pesantemente a livello statale in nuovi medicinali e antibiotici per cui non esiste ancora un modello commerciale redditizio. Non possiamo certo aspettarci che aziende farmaceutiche orientate al guadagno investano miliardi di dollari in presidi destinati a essere utilizzati soltanto nelle emergenze. In seguito all’epidemia di Ebola del 2014-2016 ci fu una corsa alla produzione del vaccino sollecitata anche dal governo. Su iniziativa internazionale nacque così la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), che aveva l’obiettivo di stimolare e accelerare lo sviluppo di vaccini contro le nuove infezioni e di consentirne l’accesso universale durante le epidemie. Ma se nel caso dell’Ebola la ricerca del vaccino ha fatto grandi passi avanti, in buona parte grazie ad altri sforzi, per quanto riguarda molti vaccini i progressi sono ancora scarsi e per questi il mercato resterà limitato fino a quando non sarà troppo tardi, fino a quando, cioè, i focolai infettivi non saranno già esplosi. Se a ciò si aggiunge che molte di queste malattie partono da regioni del mondo tra le più povere e incapaci di procurarsi farmaci e vaccini, è chiaro che serve un nuovo modello di ricerca, sviluppo e distribuzione di alcune classi di prodotti farmaceutici. L’unica via è quella degli aiuti governativi e degli acquisti garantiti: soluzione non a buon mercato, ma i cui vantaggi in termini di vite salvate finiranno, in prospettiva, per superare abbondantemente i costi.

Il problema è proprio che, quando si parla di salute pubblica, raramente si pensa a lungo termine, e questo atteggiamento deve cambiare. La scoperta dell’importanza fondamentale della cooperazione internazionale è forse l’unico risvolto davvero positivo della crisi: la consapevolezza geopolitica che, al di là di tutte le possibili differenze, la pandemia si affronta insieme.

Ecco perché di fronte a un focolaio le decisioni devono basarsi su evidenze e fatti concreti. Una volta che la Covid-19 si è trasformata in pandemia mondiale, tagliare i voli dall’Europa agli Stati Uniti è servito a rallentare la diffusione o a ridurre il numero di nuovi casi, in altre parole ad appiattire la curva epidemiologica? I virus dell’Ebola o della SARS, per esempio, non si trasmettono per diversi giorni anche dopo che l’individuo malato diventa sintomatico. L’influenza e la Covid-19, invece, possono trasmettersi anche prima che la persona infetta sviluppi i primi sintomi e persino quando resta asintomatica. Alla luce delle caratteristiche della Covid-19, la quarantena dei passeggeri e dei membri dell’equipaggio della nave da crociera Diamond Princess ancorata nella baia di Yokohama, in Giappone, appare come un crudele esperimento su cavie umane. Durante l’isolamento, infatti, soggetti sani si sono ritrovati costretti a respirare aria ricircolata insieme ai compagni di viaggio infetti, in una sorta di involontaria dimostrazione pratica della forza di diffusione del virus.

Le specificità di questa particolare malattia e dei suoi bersagli devono diventare criteri di valutazione centrali nella catena decisionale delle autorità. Il modello epidemiologico dell’influenza insegna che chiudere tempestivamente le scuole è una misura di contenimento efficace, e infatti all’inizio della pandemia di Covid-19 molti paesi hanno chiuso le scuole senza però disporre di dati che le confermassero come luoghi di effettiva propagazione. A questo punto dell’evoluzione epidemica o pandemica, un passo simile va intrapreso soltanto se siamo in grado di dimostrare che i bambini presentano tassi di contagio superiori qualora, anziché restare a casa, vengano mandati a scuola. Due modernissime città-stato colpite dai primi focolai dell’epidemia hanno tentato di reagire con la massima rapidità ed efficienza possibili: Hong Kong chiudendo le scuole, Singapore lasciandole aperte. Come si è poi visto, il tasso dei contagi non ha presentato differenze apprezzabili.

E non dobbiamo trascurare gli effetti secondari di qualunque decisione di politica sociale. Molto spesso a occuparsi dei bambini che restano a casa sono i nonni: la Covid-19, però, colpisce in maniera molto più grave gli anziani, che in questo momento stiamo cercando di esporre il meno possibile a rischi isolandoli dai potenziali portatori.
Un altro esempio. In numerose strutture sanitarie fino al 35% del personale infermieristico ha figli in età scolare e, in assenza di alternative praticabili, fino al 20% degli operatori sarebbero costretti ad assentarsi dal lavoro per occuparsene. Chiudere le scuole potrebbe quindi ridurre del 20% le risorse assistenziali indispensabili in tempi di emergenza sanitaria, per non parlare degli operatori che potrebbero restarne vittima in prima persona. In ogni caso, dunque, occorre valutare in modo meticoloso la totalità degli aspetti del problema, il che è indubbiamente un’impresa.

Ogni anno investiamo miliardi di dollari in sicurezza e difesa allocando budget e predisponendo piani pluriennali, eppure sembriamo perdere di vista la minaccia alla sicurezza nazionale più grande che esista: quella dei microbi letali all’origine delle malattie contagiose. Mai ci verrebbe in mente di dichiarare guerra a un nemico umano prima di esserci procurati una portaerei o un sistema balistico che richiedono anni per la progettazione; e mai penseremmo di gestire un grande aeroporto in mancanza di unità di vigili del fuoco perfettamente operative e disponibili ventiquattr’ore su ventiquattro, anche se nei fatti potrebbero non dover mai servire.

Invece è proprio quello che continuiamo a fare quando si tratta di combattere contro il peggior nemico. E non appena una minaccia si affievolisce, torniamo a dimenticarcene fino alla crisi successiva. Governi, industrie, mezzi di comunicazione, opinione pubblica: nessuno riesce mai a prendere in modo davvero serio la prospettiva di una nuova minaccia microbica, e questo perché tutti danno per scontato che se ne occuperà qualcun altro. Risultato: per colpa della mancanza di investimenti, leadership e volontà generale ci ritroviamo oggi deplorevolmente impreparati di fronte al nuovo virus e a pagare un prezzo davvero salato per un richiamo all’ordine a cui chissà se stavolta presteremo finalmente ascolto.

Poniamo, al contrario, di avere fatto tesoro della lezione della SARS e del suo monito. In tal caso ci saremmo adoperati con decisione per trovare contro quel particolare coronavirus un vaccino che forse – forse – avrebbe potuto rivelarsi efficace anche contro la Covid-19. E se anche non fosse servito, adesso saremmo comunque molto più avanti nella ricerca di base, nella comprensione del funzionamento del virus e nello sviluppo di una “piattaforma” per un vaccino specifico.
Naturalmente non potremo mai disporre ogni volta di un vaccino già pronto contro ogni malattia, ma non lasciamoci confondere dalla pandemia influenzale che tutte le autorità sanitarie già temono: questo è un virus che possiamo prevedere e per cui dobbiamo quindi prepararci.

Come vedremo, occorre un vaccino antinfluenzale rivoluzionario – qualcuno lo chiama vaccino universale – in grado di funzionare contro tutti o quasi tutti i ceppi del virus e indipendente da vaccini annuali, di efficacia variabile, la cui formula si basa su previsioni più o meno azzardate di quale tipologia potrebbe dominare a seconda delle stagioni. Una ricerca del genere presuppone uno sforzo di portata analoga al Progetto Manhattan, con tutti i costi annessi e connessi, ma nessun’altra impresa avrebbe il potenziale di salvare tante vite e la stessa razza umana da un disastro sanitario ed economico da cui altrimenti non basterebbe qualche decennio per risollevarsi.
Nel periodo seguito alla crisi del virus Ebola in Africa Occidentale, organizzazioni come le Nazioni Unite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità e uno sforzo congiunto tra l’Harvard Global Health Institute (Istituto per la salute globale di Harvard) e la London School of Hygiene and Tropical Medicine (Scuola di igiene e medicina tropicale di Londra) hanno pubblicato numerose analisi autorevoli e approfondite.
Tutte sottolineavano la mancanza di coordinazione iniziale e di riconoscimento della portata del problema e contenevano raccomandazioni procedurali e strategiche affini su come rispondere a nuove epidemie future. Ciononostante, pochissime di queste si sono tradotte in azioni concrete e da allora la stragrande maggioranza di quelle analisi sono rimaste a fare la polvere negli archivi, cosicché oggi non siamo molto più avanti di dove ci trovavamo all’inizio di quella crisi.

Per affrontare qualunque potenziale pandemia e non farci cogliere di nuovo impreparati quando sarà il momento, dobbiamo mettere all’opera l’immaginazione creativa su ciò che potrebbe accadere e accadrà.
Stiamo parlando di progettare una sanità, un governo e un sistema produttivo e commerciale in grado di operare in modo continuativo. Di creare una scorta strategica internazionale di beni critici, come medicinali salvavita e ventilatori per i pazienti e dispositivi di protezione individuale per gli operatori sanitari
.
Gli Stati Uniti, per esempio, hanno una loro scorta interna composta da quantitativi realistici di questi prodotti, ma niente che si avvicini vagamente ai numeri necessari per combattere la pandemia di Covid-19. E servono anche piani affidabili per fronteggiare l’aumento repentino di richieste di posti letto negli ospedali e nelle cliniche, piani che prevedano l’allestimento nei parcheggi di tende per il triage affinché i casi sospetti di infezione possano essere prontamente individuati, separati e, se necessario, isolati dal normale flusso di ingressi al pronto soccorso.

Davanti a tanta malattia, morte, confusione e a tante perdite causate dalla pandemia di Covid-19, la tragedia più grande sarebbe se “sprecassimo” questa crisi non portando a casa una grande lezione e non preparandoci per il futuro. Se non impareremo dalla storia, alla modalità di sorpresa con cui comunque anche il prossimo microbo o ceppo ci colpirà si aggiungeranno, in mancanza di tutti i piani e le risorse che già ora sappiamo indispensabili, il peso della colpa e un serio pericolo di vita.
Non dobbiamo insomma dimenticare che un microbo pericolosissimo partito oggi da un luogo qualsiasi del mondo potrebbe raggiungere domani il mondo intero.
È di questo che parla il nostro libro.

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Michael Thomas Osterholm è un epidemiologo americano di fama internazionale, dirige il Centro per la ricerca e le politiche sulle malattie infettive dell’Università del Minnesota. Il 9 novembre è stato nominato membro del COVID-19 Advisory Board di Joe Biden.

Qui l’intervista a Osterholm pubblicata dal Corriere della Sera

Mark Olshaker è un regista di documentari, vincitore di un Emmy Award. Ha scritto cinque romanzi e dieci libri di saggistica.  

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