I MUSEI ALLA PROVA DEL FUTURO

In un mercato dell’attenzione sempre più affollato, da tempo i musei  hanno cominciato a trasformarsi. Meno conservazione, più produzione culturale. E un uso sempre più inclusivo del digitale. La pandemia ha accelerato una (quasi) rivoluzione, ma quanto conta e conterà il fattore umano?

L’emergenza pandemica è occorsa in una fase generale di trasformazione delle funzioni e delle missioni museali: quali i fattori di cambiamento generali?

I fattori sono diversi, ma mi soffermerò sui due che ritengo più rilevanti: lo spostamento dell’asse d’intervento museale dalla conservazione alla produzione e l’impatto dei processi di digitalizzazione.

Per quanto riguarda il primo punto, oggi i musei sono sempre più orientati alla produzione, ravvedendo una chiara continuità tra i valori di chi opera nell’era dell’economia della conoscenza e della creatività e quelli che caratterizzano il mondo della produzione culturale e intellettuale coeva. Non è un caso se i musei di successo hanno riconosciuto che senza una costante alimentazione dei propri contenuti, attivata attraverso la rotazione delle collezioni permanenti (che i big, da Tate a Moma, hanno de facto abolito come categoria concettuale), mostre temporanee numerose e multitarget e public program sempre più ricchi e articolati, anche i colossi del settore sono destinati a soccombere di fronte a competitor sempre più numerosi e aggressivi.

Il mercato dell’attenzione fa gola a tutti, ma per rimanere protagonisti bisogna continuare a produrre, con qualità e mezzi all’altezza delle ambizioni: in ogni parte del mondo i musei producer sono divenuti parte integrante dei sistemi culturali nazionali e spiccano nelle statistiche comparative tra le strutture più visitate, sebbene abbiano bisogno di risorse crescenti.

Questa tendenza ha profondamente modificato le logiche di investimento, con un netto spostamento delle risorse dalle attività tradizionali (conservazione e ricerca) a quelle che sfociano nella “produzione” di nuovi contenuti, significati e interpretazioni, come risposta fornita al mutamento del concetto di cultura occorso negli ultimi dieci anni, con l’abolizione delle gerarchie, la scomparsa dei confini disciplinari, la commistione tra generi espressivi, che hanno profondamente mutato i gusti, le inclinazioni e le aspettative delle ultime generazioni di visitatori, più inclini alla contaminazione e sensibili alle novità, agli eventi temporanei, alle iniziative formative e convegnistiche, alla “produzione di flusso”.

Per quanto concerne gli impatti della digitalizzazione, invece, non si possono sottacere le conseguenze del processo di convergenza tra le funzione di biblioteche, archivi e musei determinato dalla capillarità e della pervasività dei processi di digitalizzazione, che puntano all’annullamento dei literacy e digital divides nella cosiddetta global knowledge society. Si tratta di questioni esiziali in un’epoca in cui il 30% dell’umanità dispone di una connessione internet e il 90% di un telefono cellulare, che hanno rivoluzionato il modo con cui le istituzioni e le persone trovano, conservano, creano, condividono e utilizzano le informazioni.

Queste sfide non vengono raccolte solo dalle istituzioni museali più grandi, vetuste o esclusivamente pubbliche, ma anche da una miriade di realtà locali, giovani e snelle, che rispondono tempestivamente a istanze capitali: l’educazione dei nativi digitali, l’uso consapevole delle nuove tecnologie, l’inclusione sociale, etnica e confessionale, il dialogo intergenerazionale, l’accessibilità, la democrazia digitale, la qualità, contestualizzazione e terzietà delle informazioni, la responsabilità sociale, la gratuità della fruizione culturale, la mediazione dei desiderata dei produttori e dei consumatori di contenuti, etc. In questi casi il digitale non è stato percepito come una minaccia, ma come un’eccezionale opportunità per favorire la nascita di una nuova generazione d’istituzioni culturali, che rappresentano il punto di convergenza e fusione delle rinnovate funzioni di musei, biblioteche e archivi.

Per conseguire questo obiettivo è necessario modificare costrutti mentali e pratiche professionali secolari, formare nuove competenze e professioni, concepire spazi fisici assai diversi da quelli austeri e intimidatori del passato: per realizzare musei culturali future-proof, bisogna progettare luoghi accoglienti, inclusivi e sostenibili, più attenti alle esigenze di pubblici eterogenei e ai fabbisogni educativi, formativi e relazionali di comunità vaste e, soprattutto, dotati di digital identities in grado raggiungere pubblici online di capitale importanza.

Covid-19 ha evidenziato con chiarezza la profondità del divide che separa i musei che avevano intrapreso processi di digital transformation da quelli che non si erano attrezzati per tempo?

L’emergenza Covid-19 ha rivelato, in tutta la sua drammaticità, quanto sia importante il grado di “maturità digitale” delle istituzioni museali.
Solo quelle che avevano sostenuto adeguati investimenti in infrastrutture tecnologiche e risorse umane sono infatti riuscite, nella fase più acuta della crisi, a mantenere vivo il rapporto con i propri pubblici e a produrre contenuti intelligenti e attività ingaggianti.
In tal senso la transizione digitale, lungi dal poter sostituire la pregnanza, l’emozione, l’empatia e il piacere dell’esperienza live, offre soluzioni intelligenti per arricchire l’offerta culturale, raggiungere target altrimenti irraggiungibili, promuovere la conoscenza delle collezioni e delle attività museali, testare le reazioni dei pubblici ed offrire appaganti occasioni formative.
La digitalizzazione si è pertanto rivelata come una leva strategica capace di ampliare e perseguire la missione fondamentale di qualunque museo e la cui influenza operativa non si limita a un circoscritto ambito d’esercizio, ma investe la totalità delle attività e dei processi museali, sollecitando le istituzioni a redigere con cura piani di digital transition che stabiliscano gli obiettivi, le priorità, le azioni, i tempi e gli investimenti necessari per adottare le innovazioni necessarie.

 

Ci sono dei musei che, per far fronte alla crisi, hanno completamente rivoluzionato la loro impostazione e si sono risollevati grazie a questo cambiamento?

In generale no, non ci sono ricette miracolose. Un conto è trasformare un museo di piccole dimensioni, un altro rivoluzionare un pachiderma. Ma i musei sono istituzioni secolari, con collezioni millenarie, in cui funzionano i cambiamenti graduali, con manager e staff all’altezza dei compiti. In questo i musei non sono diversi da molte aziende: la grande differenza la fanno le persone e, nel caso di specie, le strategie, di cui posso tentare di sintetizzare gli elementi salienti emergenti dalle migliori pratiche internazionali, che possono essere riassunte nei seguenti punti:

• Una forte interattività, la presenza di meccanismi di game-based learning e una significativa componente di storytelling – nonché l’integrazione tra di esse – sono i fattori critici del successo di un’iniziativa nel mondo digitale.

• In particolare, una delle keyword è proprio Story: nei musei post Covid è fondamentale raccontare, superando la dimensione del remoto e agendo direttamente sull’immaginazione del visitatore, facendolo calare in un mondo nuovo attraverso un’opera di narrazione che mette in relazione lo spazio cognitivo del museo con quello dell’utente, offrendo esperienze coinvolgenti e riconoscibili (il medesimo meccanismo è rilevabile anche nelle iniziative di maggior successo in ambito gaming).

• Tendenza generale a digitalizzare le collezioni proprietarie, garantendone spesso l’“accesso aperto” o una fruizione “personalizzata” e realizzando operazioni di social tagging, con l’obiettivo di incrementare l’accessibilità al patrimonio culturale e migliorare la facilità e la qualità delle attività di ricerca.

• Partnership virtuose tra musei e imprese: in molti casi, consapevoli dell’opportunità-necessità di legarsi ad aziende specializzate, leader nei propri settori, le istituzioni hanno avviato importanti collaborazioni con il mondo delle imprese, non solo per la realizzazione di mostre ma anche per le attività di e-learning (es. MoMA e Coursera) o l’offerta di virtual tour o esperienze in VR/AR (es. Serpentine e Google).

Crescente attenzione all’inclusione sociale e ai processi di partecipazione attiva dei visitatori, che da una parte sono coinvolti in maniera sempre più efficace e proattiva nei processi produttivi dei musei (es. individual e co-curatorship, crowdsourcing, crowdfunding, social tagging), dall’altra sono “impiegati” come leva di marketing, soprattutto attraverso i social network, in un’ottica di ampliamento e allargamento delle target audience.

• I musei si muovono in un mondo pluridimensionale, utilizzando strumenti di natura diversa che devono tra loro essere integrati: l’esperienza di vista on-site, l’interazione e il coinvolgimento del visitatore online, l’offerta di un’esperienza “alternativa” – nuova e complementare rispetto a quella “reale” – basata sull’impiego della tecnologia e del digitale.

 

Molti musei spingono sullo streaming, in questo particolare momento storico. È la soluzione, o cavalcano l’onda solo per far parlare di sè? Quanto conta l’esperienza e quanto ‘vende’?

Lo streaming, Coronavirus docet, è utile ma non sostituisce il fascino dell’esperienza live. Anzi. L’esperienza è, e rimarrà, il cuore delle visitor experience museali.

Guido Guerzoni dal 1996 insegna presso l’Università “Luigi Bocconi” di Milano, dove è il responsabile del corso “Museum Management” nella laurea specialistica in “Economics and Management in Arts, Culture, Media and Entertainment”.

È membro del Consiglio Superiore dei Beni Culturali e Paesaggistici del MIBACT, Advisor Tecnico del Museo dell’Economia e della Moneta della Banca d’Italia, Advisor Tecnico della Direzione Arte, Cultura e Beni Storici di IntesaSanpaolo.

Da trent’anni si interessa di storia ed economia dei mercati artistici e dei beni da collezione in età moderna e contemporanea e di tematiche di economia dell’arte e management delle istituzioni culturali.

È stato Deborah Loeb Brice Fellow presso I Tatti – The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies nel 2003-4, ha vinto una full time research fellowship presso il Getty Research Institute di Los Angeles, è stato visiting professor nel 2008-9 presso il Victoria and Albert Museum di Londra, nel 2009-10 presso Christie’s Education a Londra.

È autore di un centinaio di pubblicazioni accademiche, di cui 40 internazionali: tra le sue ultime monografie: Museums on the map 1995-2012, Allemandi 2014; Apollo & Vulcan, The art markets in Italy 1400-1700, Michigan State UP, 2011; Apollon et Vulcain. Les marchés artistiques en Italie (1400-1700), Les presses du réel, 2011.

Collabora con la RAI, Il Sole24ore, le testate del gruppo Gedi-Espresso e Il Giornale dell’Arte.

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