IMPRESE E (VERA) SOSTENIBILITÀ: SE NON ORA, QUANDO?

di Raz Godelnik

Greenwashing, lentezza, obiettivi irrilevanti, tanti buoni propositi ma scarsa efficacia. E, soprattutto, nessun vero cambio di paradigma. Finora piccole e grandi aziende hanno proclamato e praticato una “sostenibilità” che non combatte davvero la crisi climatica. Ma i primi segnali di cambiamento ci sono.

Nella sua lettera del 2021 ai CEO, Larry Fink, il più grande manager di investimenti al mondo, presidente e amministratore delegato del fondo BlackRock, ha scritto: “Nessun problema è al di sopra del cambiamento climatico nell’ordine delle priorità dei nostri clienti”.
Questo suo commento riflette un crescente disagio per il modo in cui la crisi climatica sta già sconvolgendo le imprese.

Le preoccupazioni delle aziende riguardo il cambiamento climatico si sono finora concentrate sui rischi operativi, finanziari e reputazionali, questi ultimi associati alla crescente importanza del problema per i giovani. Adesso, invece, il cambiamento climatico sta mettendo in discussione il paradigma tradizionale della sostenibilità aziendale e il modo in cui le aziende affrontano il proprio impatto sulla società e sul pianeta.
Dal momento che, come accademico, mi occupo di design strategico, innovazione, modelli di business e sostenibilità, ho monitorato come il cambiamento climatico sta trasformando il significato di “sostenibilità” nelle aziende. I primi segni di cambiamento sono visibili.

IL GAP DELLA SOSTENIBILITÀ

Negli ultimi decenni, molte aziende hanno sposato il concetto di sostenibilità. Cercare modi per ridurre il proprio impatto negativo sulla società e sul pianeta e operare in modo più responsabile è diventato una norma.
Il report di sostenibilità è probabilmente la prova più evidente di questa tendenza. Nel 2020, il 96% delle più grandi aziende del mondo per fatturato, noto come G250, ha pubblicato i dati sui propri sforzi per la sostenibilità. Ma a questa crescente quantità di report di sostenibilità non è corrisposto un effettivo miglioramento delle principali questioni ambientali e sociali. Ad esempio, le emissioni globali di gas serra sono continuate ad aumentare, così come il divario retributivo tra amministratori delegati e dipendenti.
Come suggerisco nel mio nuovo libro, Rethinking Corporate Sustainability in the Era of Climate Crisis – A Strategic Design Approach, questo divario tra la crescente attenzione delle aziende per la sostenibilità e l’inefficacia in termini di  cambiamento è causato dal loro approccio, che definisco “sustainability-as-usual”, la sostenibilità “ordinaria”.

Per sostenibilità ordinaria intendo l’adozione lenta e volontaria di pratiche di sostenibilità da parte delle aziende, che si impegnano a mettere in atto soltanto i cambiamenti che risultano agevoli per loro. E che non sempre sono quelli che la scienza indica come necessari per rallentare il cambiamento climatico, o che le Nazioni Unite raccomandano per l’equità sociale

IL PROBLEMA DELLA “SOSTENIBILITÀ ORDINARIA”

Le aziende hanno adottato questo approccio incrementale perché nonostante stiano prestando maggiore attenzione alle questioni sociali e ambientali, la loro priorità è rimasta comunque la massimizzazione del profitto per gli azionisti. Ad esempio, si sforzano di migliorare la riciclabilità dei prodotti monouso invece di considerare nuovi modelli di business che potrebbero avere un impatto positivo maggiore, come il passaggio a imballaggi riutilizzabili o la loro completa eliminazione.

Prendiamo il caso di Heinz, che ha annunciato un tappo per la sua bottiglia di ketchup riciclabile al 100%. È stato il risultato di 1,2 milioni di dollari investiti e 185.000 ore di lavoro in otto anni, secondo l’azienda.

IL CAMBIAMENTO CLIMATICO RICHIEDE UN NUOVO APPROCCIO

Sebbene sembrino cogliere l’entità della crisi climatica, le aziende in genere hanno cercato di affrontarla con la “sostenibilità ordinaria”, un tappo di ketchup alla volta.

Prendiamo come esempio la riduzione delle emissioni. Le aziende sono state lente nell’impegnarsi a ridurre le proprie emissioni a zero entro la metà del secolo, un obiettivo che il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici ritiene necessario per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi Celsius – circa 2,7 gradi Fahrenheit – ed evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico. Solo circa un quinto delle principali aziende ha obiettivi per il 2030 che sono in linea con il raggiungimento degli obiettivi di azzeramento entro il 2050.
Le aziende che fissano obiettivi di azzeramento spesso lo fanno in modi che mancano della necessaria solidità e che consentono loro di continuare a emettere gas serra, come sottolineano alcuni recenti rapporti. Preoccupa, ad esempio,  la loro dipendenza dalle compensazioni delle emissioni di carbonio, che consentono loro di pagare per potenziali riduzioni di carbonio altrove senza apportare cambiamenti reali nella propria catena di valore.

COME TRASFORMARE LA SOSTENIBILITÀ AZIENDALE

Le aziende hanno cercato di rinominare i loro sforzi di modo che suonino più sofisticati, passando da termini come CSR (“responsabilità sociale d’impresa”) a ESG (“environmental , social and governance”), “purposeful companies” e “prodotti a emissioni zero”.
Tuttavia, oggi quando non sono coerenti con quello che proclamano, le aziende trovano sempre più resistenza da parte di attivisti, investitori e organi governativi e regolatori. Un esempio è il costante sguardo puntato sulle imprese che si promuovono come leader delle politiche climatiche ma allo stesso tempo finanziano politici che si oppongono ad esse. Un gruppo di PR e pubblicitari ha denunciato il proprio settore segnalando in un report ben 90 agenzie che lavorano con aziende petrolifere.

Il business si trova a un punto di svolta strategico, che Andy Grove, l’ex CEO di Intel, il produttore di chip per computer, ha descritto come “un punto di svolta nella vita delle aziende, perché i principi fondamentali stanno per cambiare”.
Questa trasformazione potrebbe evolversi in modi diversi, ma, come suggerisco nel mio libro, contrastare il cambiamento climatico richiede effettivamente una nuova mentalità che sposti l’ago della bilancia tra la massimizzazione del profitto e la sostenibilità, a favore di quest’ultima.

PRIMI SEGNALI DI EVOLUZIONE

Che un’evoluzione stia cominciando è dimostrato da alcuni segnali,  sia all’interno delle aziende che nell’ambiente in cui esse stesse operano.
Basta guardare a come altri settori stanno modificando il loro rapporto con l’industria petrolifera. Alcuni giornali, tra cui The Guardian, non accettano più pubblicità dai produttori di combustibili fossili.  Sempre più assicurazioni e banche hanno smesso di finanziare progetti sul carbone. La banca francese Crédit Mutuel ha dichiarato di essere disposta a perdere denaro nel breve termine, pur di aiutare i propri clienti preoccupati per l’impatto del cambiamento climatico a contrastarne i rischi. 
Un altro segnale sono i cambiamenti nelle relazioni fra aziende e fornitori: la società di software aziendali Salesforce, ad esempio, ha aggiunto nei contratti una clausola di sostenibilità che richiede ai fornitori di fissare obiettivi di riduzione del carbonio.
Inoltre, per la prima volta, gli investitori dal semplice sollecitare le aziende ad intraprendere azioni più audaci sui cambiamenti climatici sono passati ai fatti. Fidelity ha annunciato che voterà contro i capi delle aziende che non dichiarano le proprie emissioni o che non hanno una politica sui cambiamenti climatici.

A questi segnali positivi si aggiungono quei cambiamenti nella legislazione e nelle politiche che, nel mondo, mirano ad applicare i principi chiave della sostenibilità e spingono a ridurre le emissioni a un ritmo più rapido; come pure le mutate aspettative dei giovani in cerca di lavoro quando si tratta di questioni ambientali e sociali, come l’inclusione e la diversità. Per tutti questi fattori, si può iniziare a vedere come la fine della solita, ordinaria sostenibilità potrebbe essere più vicina di quanto si pensi: a questo punto, infatti, la domanda da porsi non è più “se” ma “quando” ciò accadrà.

Raz Godelnik è Assistant Professor of Strategic Design and Management at the School of Design Strategies. Qui la sua bio.

Questo articolo è apparso su The Conversation, che ringraziamo.

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