ATTI OSCENI IN LUOGO BOTANICO

È tutta colpa delle piante. Sono aliene, veramente aliene. Ci rapiscono a tal punto con forme, colori e profumi da farci dimenticare che cosa sono davvero i fiori. Da infrangere ogni tabù, in nome della seduzione universale che esercitano. 

Di fronte alla “oscenità” delle piante, i bambini non si imbarazzano, gli adulti sì. È un bel test per chiedersi quanto la bellezza della natura sia filtrata da un senso del pudore, e dunque da un disagio, tutt’altro che naturali. È tutta colpa delle piante, ripete il botanico e paesaggista Antonio Perazzi. Divertendosi parecchio a interrogarsi sul proprio e sull’altrui stupore. 

È tutta colpa delle piante. Esiste una teoria di alcuni evoluzionisti americani secondo cui la vita sulla terra, per come noi la conosciamo, è frutto del più antico e radicale fenomeno di inquinamento che il pianeta abbia mai conosciuto. Secondo questo studio quando le piante, prima alghe, hanno iniziato a proliferare, hanno prodotto un’enorme quantità di ossigeno. A causa loro, l’atmosfera terrestre è cambiata e, riempiendosi di ossigeno, un gas molto reattivo, ha costretto tutte le forme di vita originarie a rintanarsi in ambienti anaerobici protetti nelle profondità terrestri. 

La botanica non smetterà mai di stupirmi. Nel momento in cui affondiamo il naso nella corolla profumata di un fiore, ignoriamo di compiere in realtà un atto osceno. Siamo così rapiti dai colori, dalla bellezza delle forme, dalla grazia delle corolle, da dimenticarci che i fiori non sono altro che un apparato genitale: quello delle piante. Siamo come i cani che si annusano il didietro per conoscersi meglio? Il mio, un bovaro svizzero, come massimo gesto di affetto affonda la testa tra le gambe (di chi ritiene meritarselo) e lì rimane emettendo rumorosi sospiri compiaciuti. 

Un altro cane che avevo anni fa, una elegante brachetta tedesca particolarmente attratta dagli odori forti, un’estate ha scoperto la magia delle fioriture dei Dracunculus vulgaris. Malgrado il suo aspetto aristocratico, sembrava addirittura abbozzare sorrisi arricciando le labbra all’insù dopo aver avvicinato il naso al fiore di questa pianta erbacea che ama i fossi umiferi di mezza Italia. Più di una volta l’ho trovata in estasi nel condividere questa sua passione con sciami di mosche ubriache intorno al fiore della serpentaria che profuma di carogna putrefatta. Questo straordinario bulbo autoctono delle nostre regioni mediterranee, riesce a produrre uno stelo florale alto quasi come una persona, ha la pelle simile a quella di un pitone e quando sboccia apre un grosso fiore a forma di calla di colore bordeaux. Il fiore di questa araceae è affascinate: per garantirsi l’impollinazione il grosso pistillo centrale si scalda simulando una putrefazione perfetta, tanto che avvicinando una mano si percepisce la differenza di temperatura. 

Nel mio giardino a Piuca abbiamo molte piante strane tra cui una piccola collezione di stapeliaceae, piante grasse striscianti, tra le quali spicca una robusta Orbea variegata che fiorisce senza riserva quasi tutto l’anno. Mio figlio la adora, soprattutto per la geometria dei bocci che prima di schiudersi sembrano origami a forma di palla, cui segue un fiore a forma di stella maculata gialla e marrone. Una volta, credendo di fare cosa gradita abbiamo collocato il vaso che la ospitava sul davanzale della camera degli ospiti senza considerare che, aperti cinque o sei fiori contemporaneamente, non era possibile stare nella stanza per via dell’odore di fogna.

Piante rare

Le piante sono così tanto aliene rispetto a noi animali da infrangere ogni tabù, è per questo che il fiore rimane sinonimo di purezza e non di organo riproduttivo, come l’amore non è sinonimo di sessualità. Così come l’armonia è un dato universale, la chimica dei profumi è universalmente seducente tanto da far perdere i freni inibitori. 

Per descrivere quest’universalità è calzante il termine inglese natural, che non vuol dire solo naturale, ma anche spontaneo, innato, genuino, fisico, schietto, famigliare. A questo proposito ho fatto un piccolo sondaggio, ho parlato della storia dei fiori puzzoni a diverse persone: gli adulti per lo più non hanno capito, alcuni appassionati di giardini hanno addirittura preso le distanze dal mio punto di vista. Ai bambini invece, questa storia degli odori e che poi le piante avessero il pisello e la passerina è piaciuta moltissimo provocando in loro una curiosità genuina – naturally. Ho avuto lo stesso risultato in un gruppo di anziani che hanno preso con molta serietà questa prospettiva botanica inedita. Ho sottoposto poi all’attenzione degli stessi gruppi una selezione di fiori, dalle forme inequivocabili, come: Clitorea, Aristolochia, Amorphophallus e altri fiori fallici. Tutti gli interpellati, indipendentemente da età, sesso o provenienza, tutti, ma proprio tutti, si sono imbarazzati, tanto che mi sorge il dubbio che anche l’idea della bellezza nella natura non possa fare a meno di venir filtrata dal senso di pudore (dal latino pudor-oris, sentire vergogna) che genera disagio. Ma è possibile continuare a provare disagio davanti alle forme naturali? 

Tanti anni fa accompagnai mia madre ad intervistare il grande Piero Camporesi, da adolescente mi avevano incuriosito i suoi libri che con erudita semplicità passavano da una analisi sociale sul pane alla degradazione corporale ai tempi del Medioevo. Secondo lui la campagna padana profumava di nebbia e di letame e io concordo con lui che si tratti di qualcosa di buono, così come, al contrario, non trovo per niente gradevole la fioritura dei carrubi che emanano un odore quasi di ferormoni animali. Nel documentario Landscape Film, di Joao Vargas su Roberto Burle Marx, il celebre paesaggista, botanico e pittore brasiliano, c’è uno spezzone di riprese in super 8 in cui si vede la madre dell’artista che passeggia in una parte del loro giardino piena di vigorosi cactus che campeggiano su una grande area. La voce narrante è quella di Burle Marx che dice: “…la mamma non camminava quasi più ma, alla vista di quella parte del giardino, era esaltata e volle avvicinarsi fino a trovarcisi in mezzo: “Bravo Roberto! Quanto vigore, che belle piante: sembrano tanti peni eretti che escono dalla terra per fecondare il mondo.” E quella fu l’ultima cosa che disse perché morì nel suo letto quella notte dopo poche ore.”

 

Antonio Perazzi  è scrittore, botanico, accademico, paesaggista. Si forma al Politecnico di Milano e a Londra presso i Kew Royal Botanical Gardens. Nel 1998 apre il suo studio di progettazione col quale ha firmato importanti progetti oltre ad aver offerto consulenza per molti importanti studi di architettura e società di engineering. Ha lavorato in Francia, Russia, India, Austria, Canada, Usa, Cina, Kuwait, Marocco. È stato professore a contratto al Politecnico di Milano e ha tenuto workshop in numerose facoltà italiane e straniere. Collabora con diverse testate nazionali ed internazionali, ha pubblicato Contro il Giardino per Ponte alle Grazie, Il paradiso è un giardino selvatico e I giardini invisibili. Un manifesto botanico per Utet. Inoltre firma la rubrica Bustine di paesaggio sul mensile Gardenia.

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