QUALE ENERGIA, QUALE CLIMA

Il Pentagono è il singolo più grande consumatore di petrolio al mondo. È solo uno dei dati (impressionanti!) che dimostrano come la guerra sia la più energivora e dunque inquinante delle attività umane.

E il dopoguerra? Al momento dominano due nuovi mantra: indipendenza energetica dalla Russia e autonomia difensiva dell’Europa. Ottime intenzioni, ma dobbiamo chiederci – con il professor Stefano Bartolini e il suo rigoroso ricorso ai dati di realtà – quali siano le politiche energetiche effettivamente possibili. E se sia sanabile il conflitto fra gli interessi dell’industria militare e quelli del clima. Cioè di tutti noi.

La guerra in Ucraina è foriera di serie minacce ecologiche. Il generale americano David Petraeus dichiarò nel 2011 che “l’energia è la linfa vitale delle nostre capacità di combattimento”. Infatti la guerra è l’attività umana più energivora. Un carro armato consuma tra 2 e 5 litri di combustibile per chilometro. Un cacciabombardiere può consumare 85 litri di combustibile al minuto. La guerra implica grandi mobilitazioni di uomini e materiali che viaggiano spesso su mezzi blindati pesantissimi (e quindi energivori). Poi, quando la guerra finirà bisognerà ricostruire l’Ucraina. Il principale settore coinvolto sarà l’edilizia, una industria molto energivora. Tutto questo consumo di energia andrà a rimpinguare le emissioni di gas serra che alterano il clima.

I danni al clima non si esauriranno a guerra finita e ricostruzione completata. Anzi, è allora che inizieranno i problemi grossi. Infatti l’impatto negativo della guerra sull’ambiente rischia di pesare per decenni a causa della rivoluzione nelle scelte militari ed energetiche che la guerra sta inducendo in Europa. La guerra indurrà una rapida e spettacolare escalation della spesa militare europea e gli eserciti sono grandi consumatori di energia, anche quando non combattono. Durante la Guerra Fredda non è mai stata combattuta una guerra nucleare ma una stima prudente indica che almeno il 5% di tutta l’energia consumata negli Stati Uniti e in URSS tra il 1950 e il 1990 sia stata usata per lo sviluppo e l’operatività dell’arsenale nucleare (Smil 2004).

Tutto quello che riguarda gli eserciti consuma molta energia, a cominciare dalla l’industria bellica, molto più energivora delle altre. Il ministero della difesa americano è il singolo più grande consumatore di petrolio al mondo e quindi anche il più grande produttore di gas serra. Nel 2017, ad esempio, le emissioni di gas serra del Pentagono sono state maggiori delle emissioni di gas serra di interi paesi industrializzati come la Svezia o la Danimarca (Crawford 2019). Per tutti gli anni Novanta il Pentagono ha consumato più energia di due terzi dei paesi del mondo (Smil 2004).

Un aumento della spesa militare è già stato annunciato da importanti paesi europei, tra cui l’Italia e la Germania. La motivazione è che dobbiamo difenderci dall’aggressività russa e dobbiamo farlo in modo il più possibile indipendente dagli Stati Uniti.

Il contratto politico che ci ha legato agli USA dal dopoguerra era che l’esercito americano ci difendeva e in cambio gli Stati Uniti ricevevano la acquiescenza europea alle scelte americane in politica estera. Ma nel tempo molte di queste scelte si sono rivelate contrarie agli interessi europei e questo riguarda anche la Russia. Dopo la guerra fredda gli Stati Uniti hanno avuto un atteggiamento più punitivo ed aggressivo verso la Russia di quanto gli europei desiderassero. Alla fine il contratto politico del dopoguerra è divenuto troppo oneroso per l’Europa. E lo è diventato anche per gli Stati Uniti, stufi di spendere cifre pazzesche per difendere l’Europa mentre la loro attenzione è concentrata sulla competizione con la Cina. Infatti attualmente ci sono circa 60.000 soldati americani in Europa, mentre alla fine della Guerra Fredda ce n’erano 350.000. Il risultato è che presso le classi dirigenti e l’opinione pubblica europee si è imposta l’idea che dobbiamo difenderci e dobbiamo essere in grado di farlo autonomamente. Si tratta decisamente di un cambio di paradigma per l’Europa rispetto agli ultimi 70 anni. È un cambiamento che ha grosse implicazioni per il riscaldamento globale. Infatti le emissioni di CO2 di un paese crescono sostanzialmente al crescere della sua spesa militare.

Ma i pericoli più grandi per l’ambiente vengono dalle scelte energetiche che la guerra indurrà in Europa. La guerra ha improvvisamente cambiato le priorità energetiche. Il mantra che dominava le classi dirigenti europee fino a prima della guerra era: energie rinnovabili! Adesso è divenuto: indipendenza energetica dalla Russia! (soprattutto nei paesi in cui tale dipendenza è più marcata come l’Italia o la Germania).

La commissione europea ha affermato che mira a ridurre le importazioni di gas dalla Russia di quasi due terzi entro la fine del 2022 e a rendere l’Europa indipendente da tutti i combustibili fossili russi ben prima del 2030. Apparentemente l’obiettivo della indipendenza e quello delle energie rinnovabili sono sovrapponibili: il vento e il sole non sono importati e sembrano l’ideale per ridurre l’import di combustibili fossili. Infatti molti sostengono che questa guerra accelererà la transizione alle energie rinnovabili.

Ma in realtà il ritmo dell’incremento di offerta di energie rinnovabili non dipende dalla volontà politica, da vincoli burocratici o dai tempi di costruzione degli impianti. Come ho sottolineato in un altro articolo su questa testata, esso dipende da strozzature nell’offerta di materiali cruciali. Occorrono grandi quantità di metalli per costruire l’enorme infrastruttura per le energie rinnovabili e questo implica un aumento massiccio dei livelli di estrazione. Attualmente l’offerta di questi minerali soddisfa la domanda ma l’energia eolica e solare forniscono il 7 per cento circa della energia globale e i veicoli elettrici sono meno dell’1 per cento dei mezzi in circolazione. Se decarbonizzassimo i paesi industriali la produzione attuale diverrebbe una frazione trascurabile di quella necessaria.

Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia nel 2040 la domanda di litio potrebbe essere cinquanta volte maggiore rispetto a oggi e quella di cobalto e grafite trenta volte superiore. Nessuno è in grado di assicurare che il pianeta sia in grado di offrirci tutti questi minerali. Gli analisti prevedono che strozzature nell’offerta di minerali saranno a lungo un freno alle energie rinnovabili.

Ma il problema più grande è la geopolitica dei materiali necessari alla transizione, in particolare quella delle terre rare, minerali indispensabili praticamente per tutta l’alta tecnologia – incluso quella che sfrutta le energie rinnovabili. Infatti le terre rare sono alla base dell’enorme progresso dei pannelli fotovoltaici, delle pale eoliche e delle auto elettriche ed ibride. Il problema è che la maggior parte dei giacimenti di terre rare si trova in Cina, dalla quale proviene quasi il 60% della offerta mondiale. Questo implica che l’Europa non può passare alle energie rinnovabili senza divenire dipendente dalla Cina. Insomma la scelta tra energia fossile e rinnovabile non è una scelta tra la dipendenza dalla Russia o l’indipendenza ma è una scelta tra la dipendenza dalla Russia o dalla Cina. Praticamente un dilemma del tipo padella/brace.

In sostanza la scelta della energia rinnovabile e quella della indipendenza energetica da potenze ostili non coincidono affatto, come invece da più parti proclamato. Una massiccia transizione al rinnovabile presenta difficoltà geopolitiche persino superiori alla dipendenza dai combustibili fossili russi. La conclusione è che l’indipendenza energetica può essere garantita nel medio-lungo periodo solo da: 1) carbone; 2) nucleare; 3) nuovi rigassificatori e gasdotti. Gli impianti di rigassificazione permettono di riportare allo stato gassoso il gas che viene liquefatto per essere trasportato via nave. I nuovi gasdotti, come i progetti Tap o Eastmed, ci collegherebbero ai giacimenti al largo di Israele ed Egitto ed in Azerbaijan.

Rigassificatori e gasdotti servono a sostituire i combustibili fossili russi con altri provenienti da paesi con cui abbiamo rapporti migliori. Il carbone è l’unico combustibile fossile estraibile in Europa in quantità decenti (in Germania e Polonia) e comunque il suo import non presenta particolari difficoltà geopolitiche. Infatti già si parla di espandere la produzione di energia dal carbone, che era in via di dismissione perché è la fonte di energia più inquinante. Quanto al nucleare i rischi per l’ambiente sono ben noti. Insomma è molto più probabile che la strada dell’indipendenza energetica non conduca a sostituire i combustibili fossili russi con energie rinnovabili ma con altri combustibili fossili, magari più inquinanti (carbone), o con fonti di energia più pericolose (nucleare).

Questa guerra è una spada di Damocle sulla transizione ecologica perché provoca riarmo e spinte alla indipendenza energetica che possono essere soddisfatte solo con scelte nefaste per l’ambiente. Per questo la guerra deve finire al più presto e il dopoguerra deve poggiare su un accordo di progressivo disarmo bilaterale. La politica energetica è divenuta una questione sempre più complessa in un mondo sempre più complesso ed interdipendente. Essa richiede ormai un approccio olistico secondo il quale questa guerra e soprattutto la gestione del dopoguerra sono parte della politica energetica perché avranno un impatto importante sulle nostre chance di rispettare gli obiettivi di limitazione del cambiamento climatico. Esiste un conflitto insanabile tra la cura dell’ambiente e gli interessi della industria militare. Una Europa militarizzata e alimentata a carbone è un lusso che non possiamo più permetterci in tempi di cambiamento climatico. Quanto a una Europa riempita di centrali nucleari, questa non è mai stata una buona idea.

RIFERIMENTI

Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Il suo Manifesto per la Felicità (Feltrinelli, 2013) è un long seller tradotto in 5 lingue. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress).

 

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