Davvero la crescita economica è compatibile con la riduzione delle emissioni di carbonio, come sostengono i politici di tutto il mondo e molti ecologisti? Oppure bisogna scegliere fra economia e clima?
In questo articolo lucido e documentato, Stefano Bartolini spiega perché la decarbonizzazione di cui tanto si parla non avverrà, come sostiene anche il Nobel per la fisica Giorgio Parisi. Inquinamento paesaggistico, riduzione della produzione alimentare, insufficienza delle materie prime necessarie (metalli, terre rare), danni ecologici ed economici: quelle dei tecnottimisti sono false promesse. La transizione alle energie rinnovabili non potrà avvenire.
E allora? Una soluzione c’è. Per cambiare bisogna fare una sola cosa: cambiare veramente.
Il mantra della politica contemporanea è divenuto: “crescita economica e lotta al cambiamento climatico”. Una alluvione di dichiarazioni di esponenti politici, cominciando dai vertici della UE, sottolinea che la priorità è la Crescita Verde, cioè una crescita economica compatibile con la riduzione delle emissioni di carbonio. La strada per la Crescita Verde passa dalla sostituzione della energia fossile con quella rinnovabile, che ci permetterà di mettere finalmente d’accordo economia e clima.
Non la pensa così il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi che, nel suo discorso alla Camera, ha dichiarato che la crescita economica è in conflitto con la lotta al cambiamento climatico. Non è certo una affermazione isolata. Sono molti i critici del tecnottimismo, la posizione secondo cui la transizione ecologica (cioè ad una economia sostenibile) è essenzialmente una transizione tecnologica (cioè a tecnologie a basso impatto ambientale).
Hanno ragione i tecnottimisti? O hanno ragione Parisi e compagnia? Quanto è credibile la promessa delle energie rinnovabili di liberarci dalla scelta impossibile tra economia e clima?
LA VITA SENZA IL PETROLIO
L’affermazione che “la nostra è una civiltà fondata sul petrolio” non è soltanto un luogo comune: è pure vero. Bellanca e Pardi1 provano a immaginare un pianeta identico al nostro ma senza combustibili fossili. La vita umana sarebbe radicalmente diversa su quel pianeta. In assenza di combustibili fossili non saremmo mai entrati nell’era dei motori – macchina a vapore, motori a combustione interna, turbine, motori elettrici. Su quel pianeta “si continua a dissodare la terra con gli animali da tiro e con le braccia umane, e con gli stessi animali si trasportano le merci via terra, mentre in mare si continua ad usare la navigazione a vela. Non esiste il trasporto su rotaia e quello aereo. L’estrazione dei minerali dal sottosuolo si compie a mano, con l’ausilio di pala e piccone, asini e muli“.
In sostanza la storia umana su quel pianeta sarebbe stata pressocché identica alla nostra fino alla fine del 1700. Da lì in poi avrebbe preso tutt’un’altra piega perché l’industrializzazione non ci sarebbe stata. Ad esempio “La farmacopea sarebbe rimasta (…) a poco più di quanto si trova in erboristeria. Le grandi infrastrutture in cemento armato, acciaio e altri materiali non sarebbero mai state costruite”. Insomma, senza combustibili fossili non sarebbe stato possibile edificare una civiltà prospera come la nostra, perché negli ultimi due secoli l’incredibile aumento della nostra capacità produttiva, dall’industria alla agricoltura, è stato fondato su un enorme impiego di energia. Così come l’incremento dei nostri consumi, che sono basati sull’automobile visto che per i nostri acquisti in centri commerciali e supermercati usiamo l’auto.
Questa evoluzione sarebbe stata impossibile senza il petrolio, una sostanza chimicamente stabile, facilmente trasportabile e immagazzinabile, nonché dotata di una densità energetica molto elevata. A tutt’oggi, tra l’80 e il 90% della energia viene fornita dai combustibili fossili. L’energia elettrica viene prodotta anche da fonti rinnovabili soltanto nei paesi sviluppati: fotovoltaico ed eolico, geotermia, idroelettrico e fissione nucleare. In Italia il solare e l’eolico forniscono circa il 15% della energia.
MANGIARE O GUIDARE?
È evidente quindi che la conversione alle energie rinnovabili di economie energivore e basate sul petrolio come le nostre implica la costruzione di una infrastruttura mastodontica. E anche molto inquinante. È vero che le fonti rinnovabili per produrre energia non impiegano petrolio ma impiegano intensivamente metalli e spazio, con conseguenze pesanti. Per sostituire i combustibili fossili il paesaggio dovrebbe popolarsi di pale eoliche e pannelli solari.
Ma l’inquinamento paesaggistico non è il problema principale. Grandi porzioni di campagna che andrebbero destinate alla produzione energetica verrebbero sottratte alla produzione alimentare. Non è esagerato pensare che ci troveremmo a dover scegliere se “mangiare e bere, o guidare l’automobile”. Non sarebbe nemmeno la prima volta che la produzione di energia rinnovabile entra in conflitto con il cibo. La destinazione di grandi estensioni di terra alla coltivazione di mais e soia per produrre biocarburanti ha già ha già provocato impennate nei prezzi di tali beni nell’ultimo decennio.
Inoltre per costruire l’enorme infrastruttura per le energie rinnovabili occorrerebbero grandi quantità di metalli. È necessario un aumento massiccio, rispetto ai livelli attuali di estrazione, per metalli ‘tradizionali‘ come rame, piombo, zinco, alluminio, argento, ferro e palladio ma anche per i metalli più rari come cobalto, cadmio e rutenio. Sia l’estrazione che la lavorazione di questi metalli sono molto inquinanti ed energivore.
Un problema ancora più grande sono le cosiddette terre rare, cioè quei minerali che sono chiamati rari non tanto per la loro scarsa disponibilità ma per la scarsissima concentrazione con cui si trovano nei loro depositi. Per questo hanno processi di estrazione dai costi altissimi ed estremamente inquinanti. Tutta l’alta tecnologia del pianeta fa uso di questi minerali.
Magari in quantità minime, essi sono ad esempio indispensabili per gli smart phone e le auto, specialmente quelle elettriche e ibride, cioè le meno inquinanti. Un’auto elettrica richiede sei volte l’apporto di minerali di un’auto a benzina. Ma quello che più importa in questo contesto è che le terre rare sono alla base dell’enorme progresso dei pannelli fotovoltaici e delle pale eoliche. Da questo punto di vista la transizione tecnologica implica una massiccia sostituzione di risorse non rinnovabili (i combustibili fossili) con altre risorse non rinnovabili. Questo non solo intensifica il saccheggio delle risorse minerarie, ma sostituisce un tipo di inquinamento con un altro. Gli esempi di questo tipo sono molti. Le auto elettriche non emetteranno CO2 il giorno in cui l’elettricità che le muove verrà prodotta con energie rinnovabili, ma lo smaltimento delle loro inquinantissime batterie rimane un problema irrisolto.
Al di là dell’impatto ambientale della transizione alle energie rinnovabili, c’è un problema ancora più grosso: è molto difficile produrre l’enorme quantità di minerali necessari alla transizione. Attualmente, con l’energia eolica e quella solare che contribuiscono solo al 7 per cento circa della energia globale e i veicoli elettrici che rappresentano meno dell’1 per cento dei mezzi in circolazione, l’offerta di questi minerali è più o meno adeguata alla domanda. Ma se decarbonizzassimo il sistema economico la produzione attuale sarebbe una frazione insignificante di quella necessaria. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), nel 2040 la domanda di litio potrebbe essere cinquanta volte maggiore rispetto a oggi e quella di cobalto e grafite trenta volte superiore. Il pianeta è in grado di offrirci tutti questi minerali? Nessuno è in grado di dare una risposta rassicurante a questa domanda. Più o meno tutti gli analisti prevedono che strozzature nell’offerta di minerali saranno un freno alla transizione tecnologica e che quindi i combustibili fossili continueranno ad esercitare un ruolo cruciale per decenni.2
DIPENDERE DALLA CINA
Ma il problema più grosso è la geopolitica di questi minerali. La maggior parte dei giacimenti di terre rare si trova in Cina, che produce quasi il 60% della offerta mondiale. In parole povere questo significa che l’Occidente non può intraprendere una transizione alle energie rinnovabili senza divenire dipendente dalla Cina. Verosimilmente, questo è l’ostacolo più grosso alle fonti rinnovabili. Riuscite a immaginare che gli Usa si consegnino alla dipendenza dalla Cina? Io no. Il petrolio ha reso i paesi occidentali dipendenti da un pugno di paesi arabi. Una dipendenza gestibile perché i paesi petroliferi sono debolissimi ma che comunque ha richiesto un pesantissimo pedaggio geopolitico, condito di colpi di stato e “guerre per il petrolio” nella seconda metà del XX secolo.
Consegnarsi alla dipendenza di una superpotenza è una faccenda completamente diversa. A meno che non vengano scoperti nuovi giacimenti così ricchi da scardinare la posizione dominante della Cina nelle terre rare, la retorica pro-clima di Biden finirà ben presto per collidere con i suoi propositi anti-cinesi. Nessun esperto di geopolitica ha dubbi su quale sarebbe a quel punto la scelta americana: meglio il riscaldamento globale che la dipendenza dalla Cina.
LE ALTRE CRISI
In ogni caso anche se superassimo questi problemi e riuscissimo ad azzerare le emissioni di CO2 dovremmo ancora affrontare enormi crisi ecologiche: dalla perdita della biodiversità alla deforestazione, dall’acidificazione degli oceani alla perturbazione del ciclo dell’azoto ed altri cicli biogeochimici, dallo spropositato uso di acqua dolce (con tutte le schifezze che ci riversiamo dentro) ai rifiuti urbani, ecc. Tutte queste crisi dipendono poco o per niente dal riscaldamento globale. Dipendono invece da cosa produciamo e consumiamo ma soprattutto da quanto. L’economia circolare dispiega modalità più o meno sofisticate per risolvere questi problemi ma il riciclo completo è attualmente impossibile. Dalla carta alla plastica, il riciclo richiede sempre l’aggiunta di porzioni sostanziali di materia prima non riciclata. Allevia il problema ma non lo risolve.
La morale è che la sostenibilità non è solo un problema tecnologico. La transizione a tecnologie che migliorino l’impatto ambientale di ciò che produciamo e consumiamo è tanto una parte fondamentale della soluzione ai problemi ambientali quanto è lontana dall’essere la soluzione. Il problema è la enorme scala della domanda energetica. Nessuna offerta da fonti rinnovabili può soddisfare una domanda delle dimensioni che attualmente sono prevedibili.
Dunque oltre a cambiare fonti di energia dobbiamo ridurre i nostri consumi energetici. Come farlo? Una ovvia risposta ce la danno grafici come il seguente, che mostra che le variazioni del consumo di energia nel mondo sono strettamente legate alle variazioni del Pil mondiale. Il Pil misura quanto produciamo e consumiamo. Il motivo per cui il consumo di energia varia quando varia il Pil è semplicemente che tutto quello che consumiamo e produciamo impiega molta energia. Alla luce di grafici di questo genere l’affermazione del premio Nobel Parisi appare una ovvia verità. Ridurre l’attività economica funzionerebbe benissimo per ridurre le emissioni. Inoltre è l’unica cosa che allevierebbe contemporaneamente tutte le altre crisi ecologiche.
Consumo energetico mondiale (curva blu) e Pil mondiale (curva rossa): 1972-2014
Nota. I tassi di crescita del consumo energetico mondiale e del Pil mondiale sono medie triennali. Il Pil è misurato in termini reali (dollari del 2010). Fonte: https://www.energycentral.com/c/ec/why-energy-prices-are-ultimately-headed-lower-what-imf-missed. Dati della BP Review of World Energy, 2015.
Insomma, se il clima e l’ambiente ci stanno a cuore dobbiamo ridurre la crescita economica. A differenza della transizione tecnologica, la riduzione della crescita economica implicherebbe un cambiamento sostanziale nelle società industriali. Infatti la nostra intera organizzazione sociale è finalizzata alla crescita economica, a cominciare dalla educazione dei bambini – visto che la scuola è sempre più finalizzata al mercato del lavoro.
Oltre a ridurre la crescita ci sono varie altre cose che ridurrebbero la nostra domanda di energia. Dovremmo organizzare le città in modo diverso. Città come Copenaghen o Amsterdam, in cui la mobilità è pubblica o in bici, offrono l’esempio di città molto meno energivore rispetto a quelle che richiedono molti spostamenti in auto. Ma non è solo il modo di spostarsi che conta ma anche quanto ci spostiamo. La “città dei 15 minuti”, a cui puntano molte città nord-europee mira proprio a ridurre la necessità di spostarsi. Si tratta di un modello di città in cui i punti di interesse (uffici postali, parchi, scuole, negozi, uffici postali, impianti sportivi, ecc.) sono raggiungibili in 15 minuti a piedi, ovunque si abiti. Inoltre dobbiamo cambiare il sistema di produzione e distribuzione del cibo, dato che l’agricoltura e l’allevamento industriali sono un sistema per trasformare petrolio in cibo. Sia la riforma delle città che quella dell’approvvigionamento di cibo implicano sostanziali mutamenti del nostro modo di vivere.
MA UNA SOLUZIONE C’È
La mia conclusione è che la decarbonizzazione richiede cambiamenti profondi nel modo in cui la società è organizzata. La promessa tecnottimista è che non dovremo farli, che le cose funzioneranno bene così come sono, basta solo cambiare tecnologie. Ma è una falsa promessa. Ci sono molti altri problemi che ci dobbiamo porre oltre a quello tecnologico. L’idea di alimentare con le energie rinnovabili una civiltà energivora come la nostra è puerile e destinata a sbattere contro una montagna di problemi (geopolitici, tecnologici e ecologici) irresolubili attualmente e nel prevedibile futuro.
La scala dei consumi energetici è divenuta il problema principale, al punto che essa non potrà essere soddisfatta nemmeno con le energie fossili. Secondo l’IEA il petrolio a basso costo di estrazione – sostanzialmente quello mediorientale – nel 2008 ha raggiunto il picco produttivo (cioè non è possibile espandere la produzione). La crescita della domanda è stata coperta da tipi di petrolio diversi. Siamo andati a estrarre petrolio dai mari profondi, dalle sabbie bituminose e da rocce che vengono sbriciolate idraulicamente. Naturalmente i costi cambiano radicalmente: si passa dai 10-20 $ al barile per il petrolio saudita, agli oltre 150 $ al barile per il petrolio estratto dalle sabbie bituminose del Canada 3 . È soprattutto per questo che il prezzo del barile è tra le tre e le quattro volte maggiore rispetto alla fine del ‘900. Insomma, il petrolio non finirà di colpo come la benzina nel serbatoio ma l’era della energia a basso costo, inaugurata dal petrolio nel corso del ‘900, è stata una parentesi nella storia umana e si è già chiusa per sempre. In pratica “siamo come topi di laboratorio in gabbia che, avendo mangiato tutti i semi, scoprono che possono mangiare anche il cartone delle scatole”4. Ma prima o poi finisce anche il cartone. In parole povere, la scala dei nostri bisogni energetici è divenuta insostenibile anche per i combustibili fossili. Non è solo l’idea di alimentare una civiltà energivora come la nostra con le energie rinnovabili ad essere irrealizzabile, ormai lo è anche quella di alimentarla con quelle fossili. Anche prescindendo dal riscaldamento globale, non c’è alternativa a ridurre i consumi energetici.
Quindi, oltre che alla tecnologia, dobbiamo cominciare a pensare anche ai cambiamenti che dobbiamo fare per ridurli. Altrimenti le conseguenze potrebbero essere disastrose nel lungo periodo, anche agli occhi di molti degli stessi tecnottimisti. Infatti una volta verificata la irrealizzabilità della decarbonizzazione attraverso le energie rinnovabili, l’unica opzione tecnologica che rimarrà sarà quella nucleare. È per questo che la promessa tecnottimista è pericolosa oltre che irrealizzabile. L’approccio puramente tecnologico alla transizione ecologica ci porta dritti in bocca al nucleare. Un esito paradossale e tragico per l’ecologismo, un movimento che era nato intorno allo slogan No Nukes.
1 Bellanca N. e Pardi L. (2020), O la capra o i cavoli. La biosfera, l’economia e il futuro da inventare. Firenze University Press.
2 Michael T. Klare, Tom Dispatch, Rinunciare al petrolio non sarà facile, Internazionale, luglio 2021
3 Richard G. Miller e Steven R. Sorrell, “The future of oil supply”, Philosophical Transactions of the Royal Society , 372
4 Nafeez Ahmed, “Former BP geologist: peak oil is here and it will break economies”, TheGuardian, , 23 December 2013
Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Il suo Manifesto per la Felicità (Feltrinelli, 2013) è un long seller tradotto in 5 lingue. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress). Per Aboca ha pubblicato Ecologia della felicità. Perché vivere meglio aiuta il Pianeta. Qui un approfondimento.