La pubblicità fa male? O addirittura: la pubblicità funziona proprio perché fa male, generando desideri mai pienamente soddisfatti? Come disse un grande pubblicitario, “Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.”
Il professor Stefano Bartolini ci conduce ancora una volta a ribaltare il luogo comune, che dà per scontati ed eterni il consumismo e le sue armi. E se invece …

Il consumo è il motore delle nostre economie, il cardine dei nostri desideri, il traguardo delle nostre vite votate al lavoro. È per questo che la nostra società promuove il consumo con ogni mezzo, ha cioè inventato il consumismo. L’economia consumista è però ormai andata a sbattere contro almeno un limite, quello fisico. Il mondo è troppo piccolo per sostenere gli attuali standard di consumo. Inquiniamo troppo, usiamo troppe risorse e questo ha finito per mettere in crisi la biosfera.
Dobbiamo ridimensionare i nostri consumi. È possibile farlo senza rendere la gente più scontenta e insoddisfatta – in una parola, più infelice? È chiaramente una delle domande più importanti della nostra epoca. In questo articolo sostengo che abbiamo almeno un modo per migliorare il benessere e contemporaneamente ridurre i consumi: ridurre l’ammontare di pubblicità a cui siamo sottoposti. Infatti una enorme mole di ricerche dimostra che la pubblicità: 1) fa male; 2) aumenta sostanzialmente i consumi.
Cominciamo dal secondo punto. Una alluvione di ricerche documenta che una maggior esposizione alla pubblicità è associata ad acquisti e aspirazioni di consumo più elevati. La pubblicità è l’architrave del business di successo. Negli Stati Uniti la quota di mercato della Coca-Cola è circa il doppio della Pepsi ma quando agli americani viene fatto assaggiare Coca e Pepsi in anonimi bicchieri una ampia maggioranza di loro trova migliore la Pepsi. Il dominio del mercato da parte della Coca-Cola è spiegato solo da un marketing migliore, non dal fatto che è più buona.
La pubblicità funziona per vendere proprio perché fa male. Infatti lo scopo della pubblicità è sempre stato rendere insoddisfatta la gente. Un secolo fa, quando la pubblicità era ai suoi albori, un top manager della General Motors, Charles Kettering, disse che la missione del business sarebbe stata “la creazione organizzata della insoddisfazione” (attraverso la pubblicità). Per vendere bisogna rendere la gente insoddisfatta, perché la gente non compra se è soddisfatta di quello che ha. Frédéric Beigbeder conferma che i pubblicitari contemporanei hanno perfettamente introiettato questo messaggio: “sono un pubblicitario. Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.”
La pubblicità è progettata per far male e ci riesce in pieno. Ogni studio sugli adulti conclude che essa manipola valori, desideri, relazioni, scelte, comportamenti in un modo disfunzionale alla felicità. Questi effetti negativi passano per la promozione dei valori del consumo. Le persone più esposte alla pubblicità tendono a divenire più consumiste, nel senso che danno una elevata priorità nella vita a obiettivi come il consumo, il denaro, il successo. Gli individui consumisti sono meno soddisfatti della loro vita, meno felici, hanno meno frequenti emozioni positive (come gioia e serenità), più stress, più probabilità di contrarre malattie mentali come ansia e depressione, più frequenti emozioni negative e godono di una salute fisica peggiore. Sviluppano la tendenza a considerare gli altri come oggetti e questo rende difficile vivere appieno la propria vita relazionale. Inoltre le persone con elevati valori del consumo hanno una peggiore relazione con se stessi, misurata da una serie di parametri come il grado di autostima, di vitalità, di capacità di provare esperienze coinvolgenti, di percezione di libertà e autonomia nel determinare la propria vita.
La pubblicità funziona bene per vendere agli adulti e molto di più per vendere a bambini e adolescenti. In un esperimento è stato ridotto a bambini di 8-9 anni il tempo passato alla tv e su altri media. Le loro richieste di acquisto di giocattoli sono diminuite del 70% rispetto al gruppo di controllo. La pubblicità funziona di più sui bambini perché creare insoddisfazione è più facile con i bambini che con gli adulti. Ce lo spiega Nancy Shalek, una celebre pubblicitaria americana per bambini: “quando è fatta bene la pubblicità fa sentire alla gente che senza un prodotto sono dei perdenti. Ed è più facile da fare con i ragazzi perché sono emotivamente più vulnerabili”. I bambini interiorizzano più facilmente i valori del consumo veicolati dagli spot; questo li conduce a maggiore ansia, minori livelli di auto-stima, rapporti più difficili con i genitori e maggiore probabilità di avere comportamenti anti-sociali.

Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Per Aboca Edizioni ha pubblicato Ecologia della Felicità. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress).