CHE VITA E LAVORO SIANO SOSTENIBILI

Si vive per lavorare e si lavora per consumare? Non più. Il paradigma novecentesco è in crisi, come ha spiegato Stefano Bartolini, studioso di Economia della felicità, nella prima parte di questo intervento. Grandi Dimissioni e quiet quitting ne sono un segnale, e la pandemia ha accelerato ovunque questa tendenza a ripensare priorità e modalità.

E adesso? Quale nuovo modello di lavoro e di vita sapremo disegnare? In questa fase di rapido cambiamento, le aziende sono chiamate a sperimentare nuovi modelli organizzativi, a creare valore in una economia al servizio delle persone (e dell’ambiente) e non più viceversa. Da questo dipende il successo delle imprese e la sostenibilità delle nostre esistenze.

Come abbiamo visto, al pari di molte altre crisi, la pandemia ha fatto decollare tendenze già in atto. Gli studiosi della evoluzione dei valori sanno da decenni che ogni nuova generazione in Europa dà sempre più importanza ai valori cosiddetti post-materialisti. Dare più peso agli affetti e alla socialità, a ciò che condividiamo (come la qualità dell’ambiente) piuttosto che al nostro privato, cercare un ragionevole equilibrio tra vita e lavoro, smettere di identificare il vivere bene con fare soldi o carriera, sono parte di questi valori.

Queste tendenze dei valori sono da tempo in rotta di collisione con il modello di lavoro dominante che è ancora quello novecentesco: si esce di casa la mattina e ci si torna la sera; casa e luogo di lavoro sono in genere distanti. Questo modello di lavoro è basato su due presupposti: 1) una visione della vita in cui le esigenze economiche sono la priorità unica; 2) famiglie stabili con ruoli di genere rigidi. Insomma è un modello pensato per mariti il cui unico compito è procurarsi un reddito, mentre le mogli si occupano dei figli e della economia domestica.

Entrambi questi presupposti non valgono più da tempo. L’esigenza di vite meno ossessionate dal lavoro e dalla performance è pervasiva nelle nostre società. Molta gente cerca da tempo una exit strategy dalla demenziale alternativa tra l’essere stressati perché si lavora troppo o perché si lavora troppo poco (i disoccupati), che è l’alternativa proposta dal modello novecentesco di lavoro. Inoltre la famiglia si è sfilacciata in società ormai popolate da un esercito di single. I ruoli di genere sono in continuo declino, e l’esigenza di uscirne è manifestata anche da molti maschi, che reclamano con sempre maggior forza il tempo con i figli.

Il risultato è un mondo di lavoratori che hanno bisogno di flessibilità, di maggior prossimità tra vita e lavoro. Per questo i valori e le aspirazioni delle persone sono entrati da tempo in rotta di collisione con il modello di lavoro novecentesco. E la collisione è arrivata col Covid-19.

L’economista americana Betsey Stevenson sostiene che le Grandi Dimissioni sono trainate da maschi che durante il lockdown hanno sperimentato una disponibilità senza precedenti di tempo per i propri figli. E non vogliono tornare indietro, vogliono lavori che gli permettano di vedere i figli non solo durante il fine settimana. Altri sostengono che le persone hanno avuto il tempo di riflettere durante il lockdown e la loro conclusione è stata che la priorità economica era sovradimensionata nelle loro vite. Alcuni studiosi sostengono anche che i lavoratori abbiano semplicemente capito che è possibile lavorare in modo diverso. Altri ancora argomentano che la gran quantità di morti per Covid-19 ha portato la gente alla consapevolezza che la vita può finire in ogni momento e quindi in ogni momento vale la pena di viverla il meglio possibile. Tutte queste spiegazioni hanno una cosa in comune: la gente ha rivalutato il tempo.

Grandi Dimissioni e quiet quitting hanno una dimensione così ampia che stanno ridisegnando i motivi dell’insuccesso o del successo delle imprese e conseguentemente anche la loro organizzazione del lavoro. Gli autolicenziamenti infatti sono costosi per le imprese perché l’investimento fatto per la formazione dei lavoratori viene perduto quando essi si licenziano. Dato che le Grandi Dimissioni aumentano il ricambio della forza-lavoro, esse implicano continui spese per la formazione dei nuovi assunti. È per questo che per le imprese le Grandi Dimissioni sono un grosso problema. È lo è anche il quiet quitting, spesso associato ad un limitato impegno sul lavoro.

La conclusione è che per assicurarsi forza-lavoro di qualità a costi ragionevoli la riduzione delle Grandi Dimissioni e del quiet quitting sono divenuti fattori critici. Il modo per farlo? Proporre lavori che siano flessibili, facciano un ampio uso di telelavoro ove possibile, ed espandano la compatibilità tra vita e lavoro. E contemporaneamente siano coinvolgenti, motivanti, inseriti in un contesto di relazioni collaborative e gerarchie rilassate. Molte imprese lo hanno capito, moltissime altre no, altre ancora sono scoraggiate dalla complessità del compito, che richiede un profondo cambiamento organizzativo e culturale. Infatti, l’organizzazione del lavoro flessibile è complicata, inoltre la rarefazione degli incontri faccia a faccia rende più difficile creare relazioni e coesione tra i dipendenti, e una cultura d’impresa condivisa. Questi temi sono già al centro del dibattito sui temi d’impresa. Lo saranno sempre più.

Anche in questo caso il Covid-19 ha accelerato tendenze in atto da tempo. Da decenni infatti stanno cambiando i motivi del successo delle imprese. Prima tali motivi dipendevano largamente dall’accesso ai capitali finanziari e alla tecnologia. Poi siamo entrati progressivamente in una epoca diversa, in cui il destino delle imprese si gioca sempre più sulla capacità di connettere in un progetto comune la varietà delle motivazioni, interessi, preferenze, degli individui. Il capitale fondamentale delle imprese non è più finanziario o tecnologico ma è divenuto largamente umano e relazionale. Il capitale umano riguarda le competenze degli individui e il capitale relazionale concerne le sinergie create dalle loro relazioni all’interno delle imprese. Essi sono due aspetti interconnessi perché la capacità di cooperare è un aspetto fondamentale delle abilità degli individui. Il capitalismo digitale americano e di molti altri paesi è un esempio estremo di questo cambiamento. Infatti esso è nato nei garage, gli investimenti che hanno creato piccoli e grandi imperi digitali sono stati minimi.

Da tempo quindi il confine tra il successo e l’insuccesso d’impresa passa sempre più per la qualità delle persone, a partire dalla loro capacità di creare relazioni costruttive. Il Covid-19 sta provocando una brusca accelerazione di questo mutamento epocale. Esso metterà sempre più in crisi quelle imprese che non accompagneranno il mutamento con un cambiamento dei modelli organizzativi che valorizzi la centralità dell’elemento umano.

In conclusione il mondo dell’impresa e del lavoro sta evolvendo in risposta a una crisi profonda del modello di vita basato su elevati livelli di consumi e di lavoro su cui è stata edificata la civiltà industriale dal secondo dopoguerra. Visto che è proprio questo modello che ci ha portati sull’orlo del baratro ecologico, la sua crisi è una ottima novità per l’ambiente. La costruzione della sostenibilità passa per la costruzione di vite meno dominate dal consumo e dal lavoro. La buona notizia è che potremmo stare andando nella direzione giusta. La grande esigenza dei nostri tempi è la qualità della vita, è per questo che masse di lavoratori stanno cercando una via d’uscita da un mercato del lavoro che li spreme oppure li rifiuta (rendendoli disoccupati). Le imprese che sapranno offrire questa via d’uscita avranno un vantaggio competitivo perché attrarranno e manterranno una forza-lavoro stabile e di qualità. Per questo finiranno per indicare la strada a tutto il mondo d’impresa. La direzione verso cui andiamo è il superamento di un sistema che chiede alle persone di essere fatte per l’economia e la creazione di una economia fatta per le persone.

Naturalmente esiste sempre la possibilità che questi cambiamenti non siano duraturi, che la gente finisca prima o poi per risalire sulla ruota dei criceti. Ma è improbabile che accada, perché le tendenze che il Covid-19 ha portato alla ribalta erano in atto da tempo. Dopotutto la storia delle epidemie ci insegna che i cambiamenti che esse hanno accelerato hanno trasformato durevolmente la società.

Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Per Aboca Edizioni ha pubblicato Ecologia della Felicità. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress).

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