RIPRENDIAMOCI IL TEMPO

Il peso della produzione e dei consumi è insostenibile per gli ecosistemi. Il peso di vite dominate dal lavoro è insostenibile per milioni di persone. E allora, continuiamo così oppure qualcosa finalmente sta cambiando?

Che una rivoluzione sia possibile, e forse imminente, gli studiosi della felicità come Stefano Bartolini lo deducono da alcuni dati eclatanti. In Italia, per esempio, abbiamo un record europeo … 

 

L’attuale epoca di crisi ecologiche testimonia che gli ecologisti hanno ragione da decenni: il peso della produzione e dei consumi è insostenibile per gli ecosistemi. Non sono certo i ridotti consumi dei paesi poveri il problema ma lo stile di vita dei paesi industriali, quello consumista.

Il 10% più facoltoso del pianeta consuma il 40 % dell’energia e questo 10% è largamente concentrato nei paesi industriali (quelli occidentali più alcuni paesi asiatici, Giappone, Corea del Sud e più recentemente Cina).

Molti, inclusi molti ecologisti, pensano che quest’andazzo non possa cambiare. Il consumo sembra essere quello a cui tutti aspirano, e non solo (comprensibilmente) nelle nazioni povere.

Il problema è che sono proprio quelli che consumano tanto, i cittadini dei paesi ricchi, ad essere impegnati in una caccia forsennata ai consumi, fatta di resse bibliche per il Black Friday e ferventi attese per l’ultima novità.E fatta anche di vite dominate dal lavoro, visto che guadagnare bene è presupposto ineludibile del comprare molto. In altre parole, alla base delle attuali crisi ecologiche c’è il fatto che la gente sembra dare molta importanza ai beni che può comprare e molto poco al proprio tempo.

Due fenomeni hanno sorpreso gli osservatori: le Grandi Dimissioni e il quiet quitting.

Ma è veramente così? È davvero la crescita senza fine dei consumi ciò che la gente vuole più di ogni altra cosa? Ci sono molti segnali che le cose non stiano così. Infatti il mercato del lavoro dei paesi industriali sta cambiando rapidamente dopo il Covid-19. Due fenomeni hanno sorpreso gli osservatori. Il primo è chiamato Grandi Dimissioni: decine di milioni di persone in tutto il mondo industriale si sono licenziate dal proprio lavoro dopo la fine della pandemia. Il secondo è chiamato quiet quitting. Si tratta della tendenza dei lavoratori a rispettare letteralmente l’orario contrattuale evitando di allungarlo e di rispondere ad email e telefonate fuori dall’orario di lavoro. Insomma significa non farsi invadere la vita dal lavoro, mettendo un confine netto tra i due.

Cominciamo con le Grandi Dimissioni. Nel 2021, secondo il Bureau of Labor Statistics degli Stati Uniti, oltre 47 milioni di americani hanno lasciato volontariamente il lavoro, un evento di massa senza precedenti, stimolato dal Covid-19. Gli studiosi delle Grandi Dimissioni concordano sul fatto che la pandemia abbia indotto le persone a riconsiderare il ruolo del lavoro nella loro vita. In sostanza i lavoratori stanno massicciamente cercando un più ragionevole equilibrio tra lavoro e vita privata.

Il Covid-19 non ha stabilito questa tendenza ma ha semplicemente rafforzato tendenze precedenti. Negli Stati Uniti nel 2021 il 2,7% della forza-lavoro si è dimessa. Ma nel 2019 era stato circa il 2,3% ed era il risultato di uno stabile aumento dal 1.3% del 2009. Comunque qualcosa è cambiato. Prendiamo l’esempio dei pensionamenti: nel 2021, i lavoratori più anziani hanno lasciato il lavoro a un ritmo accelerato, e lo hanno fatto in età sempre più giovane. Hanno preso questa decisione per il desiderio di trascorrere più tempo con i propri cari, concentrandosi su priorità diverse dal lavoro. Si tratta di una evoluzione molto diversa da quella dell’ultima grande crisi. Durante la Grande Recessione, tra il 2007 e il 2009, c’era stato un aumento dell’1,0% della partecipazione al mercato del lavoro tra i lavoratori oltre i 55 anni, mentre dopo il Covid-19 c’è stato un calo dell’1,9%, dovuto ai pensionamenti.

Negli Stati Uniti le grandi dimissioni hanno una dimensione così  importante che, secondo vari economisti, hanno generato strozzature nella disponibilità di lavoratori che hanno contribuito all’attuale aumento del tasso di inflazione. Anche il fenomeno del quiet quitting ha raggiunto enormi dimensioni. Secondo un sondaggio della Gallup metà dei lavoratori americani sono quiet quitters. 

In Europa le Grandi Dimissioni hanno dimensioni più contenute ma comunque imponenti. In Italia nei primi nove mesi del 2022 si sono dimessi 1,66 milioni di lavoratori, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Il 2021 però era stato già un anno di dimissioni in crescita rispetto al periodo pre-Covid (circa un terzo in più rispetto al 2018). Quanto al quiet quitting, il nostro paese è primatista europeo, con solo il 4% della forza-lavoro che dichiara di impegnarsi nel proprio lavoro (la media europea è 14%).

Per riassumere che cosa ci rende felici bastano due parole. No, non sono “lavoro” e “denaro”.

Che cosa unisce questi fenomeni e perché sono stati scatenati dal Covid-19? Questi cambiamenti hanno sorpreso praticamente tutti gli osservatori ma non gli studiosi della felicità e della evoluzione dei valori, consapevoli che nelle nostre società c’è una grande pressione per il cambiamento. La scienza della felicità coinvolge ormai tutte le scienze sociali ed è nata circa 30 anni fa quando si sono scoperti vari modi affidabili di misurarla. Queste misure sono disponibili per molti paesi e molti decenni. Esse mostrano che la crescita economica ha fallito nel migliorare la felicità. Nei paesi industriali la felicità non è cresciuta sostanzialmente negli ultimi decenni e in alcuni paesi è decisamente peggiorata. L’esempio peggiore sono gli Stati Uniti, piagati da suicidi in crescita e da una epidemia di malattie mentali, consumo di droghe psicotrope legali e illegali, infelicità e disperazione che affligge una massa enorme di cittadini.

Si tratta di una evidenza scioccante: come è possibile, alla luce dei risultati raggiunti dal mondo occidentale in tema di prosperità economica, libertà politica, standard educativi, igienici e sanitari, progresso tecnologico, speranza di vita ecc., che la gente non si senta meglio? 

Molti studi hanno mostrato che una gran parte del motivo è nello stile di vita dominante nei paesi industriali, governato dagli imperativi del lavoro e dal consumo. Per comprare molto bisogna lavorare molto, la civiltà del consumo impone un pesante pedaggio agli individui in termini di tempo e energia mentale assorbiti dal lavoro. Ogni sondaggio conferma che quasi tutti sono stressati dal proprio lavoro. Le esigenze di consumo ci impegnano in una rincorsa affannosa al denaro e al successo lavorativo che ci porta a perdere di vista il valore del nostro tempo e delle nostre relazioni.

Invece sono proprio queste le cose più importanti per la nostra felicità. Per riassumere che cosa ci rende felici secondo gli studi bastano due parole: gli altri. È la qualità delle nostre relazioni sociali ed affettive il fattore che pesa di più sulla nostra felicità. Secondo il premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman le attività quotidiane più strettamente associate alla felicità sono relazionali, come socializzare dopo il lavoro, cenare con gli amici, fare sesso. Le professioni che rendono la gente più felice hanno un forte contenuto relazionale, anche se non sono particolarmente redditizie, come fare il parrucchiere. Infatti il tipo di povertà che più causa infelicità è quella relazionale: la gente che sta veramente male è sola. E la solitudine è divenuta un problema di massa nei paesi ricchi.

In sostanza lo stile di vita dominante nei paesi industriali è disfunzionale alla felicità. Produce persone, ansiose, aggressive e/o depresse, solitarie e/o conflittuali, competitive, invidiose, insoddisfatte, che vivono intrappolate in una routine lavora/spendi che non dà loro tempo di riflettere. Una routine che somiglia alla ruota che i criceti fanno girare incessantemente correndo, senza in realtà mai muoversi dal fondo della ruota.

Il Covid-19 ha semplicemente fermato la ruota dei criceti. Venti giorni dopo l’inizio del lockdown scrivevamo: “Un motto afgano dice: ‘Voi occidentali avete l’orologio ma non avete il tempo’. Adesso il tempo ce l’abbiamo, forse per la prima volta. Se questo producesse una riflessione di massa essa potrebbe avere effetti sorprendenti, profondi e duraturi sulla nostra vita sociale.”[1] Il Covid-19 ha avuto l’effetto esplosivo di cambiare il valore che le persone danno al proprio tempo. La gente si è resa conto che quello che compra non lo paga con i soldi ma con il tempo. Il tempo è la vita. E la qualità del tempo è la qualità della vita.

La seconda parte di questo articolo uscirà la prossima settimana. 

[1] Stefano Bartolini e Paola Bordandini: E alla fine di tutto scopriremo la fiducia, Repubblica Firenze, 20 marzo 2020.

Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Per Aboca Edizioni ha pubblicato Ecologia della Felicità. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress).

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