NEL VERDE DIPINTO DI VERDE?

Alla nostra campagna contro la sostenibilità di facciata (per esempio qui) si aggiunge ora la voce di Carlin Petrini, fondatore di Slow Food, uno dei maggiori movimenti internazionali per il rispetto dell’ambiente e delle persone. 

Ora più che mai, scrive, è necessario avere un atteggiamento critico e distinguere ciò che è davvero sostenibile dalle pratiche ingannevoli e pericolose di troppe aziende. Ora più che mai, le nostre scelte d’acquisto contano. 

Sicuramente negli ultimi anni la parola sostenibilità è diventata tra le più lette, pronunciate e ascoltate in assoluto. Non c’è spot pubblicitario in cui non venga usata. La presa di coscienza di un cambio climatico che va affrontato con urgenza e in maniera trasversale in ogni aspetto della nostra vita, specialmente a partire dall’acquisto di beni di prima necessità, è crescente. E questo spinge la comunicazione delle aziende – e non solo – a rivolgersi a noi, cittadini consumatori, tingendosi di verde. È così che quasi tutti oggi ambiscono a essere sostenibili e si proclamano impegnati in questa direzione. Ma come spesso succede quando d’improvviso una parola inizia a essere sulla bocca di tutti, è necessario fare molta attenzione all’onestà e alla coerenza tra affermazioni e azioni. Il rischio è che la responsabilità e la veridicità di quanto dichiarato, non trovino un riscontro nella realtà, e che la sostenibilità si riduca ad un dannoso esercizio di stile che prende il nome di greenwashing.

Lungi però dal voler fare una critica sterile, a mio modo di vedere due sono le considerazioni da tenere bene in mente quando si parla di sostenibilità e di greenwashing. La prima è in realtà una nota di merito rispetto a un quadro di crescente sensibilità e di riconoscimento della questione ambientale. Per tanti anni ci sono state realtà che hanno portato avanti azioni di valorizzazione delle economie di prossimità, di produzione e consumo responsabile nei confronti dell’ambiente, e di difesa del territorio e della biodiversità. Realtà che hanno operato senza che venisse compreso il vero valore di quanto facevano, ma anzi molto spesso etichettandole come nostalgiche e
passatiste
. Il fatto che ora invece ci sia un humus socio-culturale pronto ad accogliere queste istanze, e che la sostenibilità sia una caratteristica riconosciuta da buona parte dell’establishment politico e produttivo, vuol dire che la tematica è stata sdoganata.

Non solo, significa anche che coloro che praticavano la sostenibilità già da decenni erano in realtà degli avanguardisti, che poco a poco hanno spianato la strada a quanti si sono andati aggiungendo. E tutto ciò oggi deve essere motivo di orgoglio e gratificazione.

La seconda considerazione che vorrei riportare alla vostra attenzione è ciò che permette di discernere le realtà davvero virtuose, da quelle che invece fanno del gran bel greenwashing; mosse dall’attrattività di un elemento che fa tendenza (e anche fatturato). Dal punto di vista della comunicazione infatti, il richiamo alla sostenibilità può far aumentare notevolmente il valore di un brand. Ecco allora che, visto che il tutto rischia di limitarsi a una mera azione di marketing, risulta quanto mai necessario avere un atteggiamento proattivo e critico rispetto a quanto ci viene proposto. Non accettando a pie’ pari ciò che ci viene propinato, ma interrogandoci se oltre ai toni “verdi” ci sia anche della sostanza. Questo può avvenire solo se, parimenti, la società intera si riconcilia con la vera essenza della sostenibilità, che non è né la facoltà di un bene o servizio di essere profittevole, né il greenwashing, ma bensì la durabilità. Ciò che è sostenibile in francese viene chiamato durable, questo ci deve far capire che essere sostenibili significa durare nel tempo, “allungare la vita” di ciò che produciamo e consumiamo. Su questo si fonda anche la necessità di uscire da una logica di pensiero lineare e accumulatrice, che tratta le risorse del pianeta come infinite, e agire invece in ottica circolare, valorizzando così azioni quali il riuso, il riciclo, la condivisione, lo scambio e il prestito.

Teniamo bene a mente queste considerazioni: la sostenibilità comunicata deve poi trovare una controparte nella sostenibilità praticata. Che è un processo lungo e tortuoso che implica un ripensamento della visione aziendale finora adottata. E che è davvero sostenibile ciò che è fatto per durare nel tempo; allora abbiamo a disposizione alcuni strumenti basilari per non perderci dentro la giungla del greenwashing e, con le nostre scelte di acquisto, amplificare l’impatto dei veri paladini della sostenibilità. Per maggior chiarezza, ma senza fare nomi permettetemi di riportare due casi esemplificativi. 

Il primo è il colosso degli acquisti online che si schiera sul fronte ambientale utilizzando veicoli elettrici per la consegna dei pacchi. Peccato che il problema di questa azienda non dipenda dai mezzi di trasporto utilizzati, ma dalla sua stessa natura. Natura, volta a creare bisogni e desideri – che in realtà non ci appartengono – con il solo scopo di fomentare un consumo compulsivo e far raggiungere cifre da capogiro al fatturato. 

Il secondo esempio invece, chiama in causa una catena di fast food che si dice interessata al benessere animale e a porre fine alla deforestazione. Fantastico, diremmo. Non fosse che le buone intenzioni cozzano con le necessità pratiche. Per la mole del proprio commercio e i prezzi di vendita, infatti, questa azienda non può fare a meno di avere come fornitori di riferimento gli allevamenti intensivi. Luoghi in cui tra l’altro la principale fonte di alimentazione degli animali è la soia, la cui coltivazione su larga scala è tra le principali cause di distruzione della foresta Amazzonica.

Ed esempi così se possono fare a migliaia. Mi pare ora evidente come la sostenibilità vestita di greenwashing sia una pratica pericolosa oltre che ingannevole, che marcia sull’ingenuità e sulla mancanza di adeguate informazioni ai cittadini, e facendo ricadere sotto l’ombrello della tutela dell’ambiente mere operazioni industriali. È necessario essere consapevoli che la sostenibilità non si esaurisce in uno o più, pur significativi, semplici gesti. Ci impone una vera e propria trasformazione culturale e operativa in cui l’attenzione per l’ambiente diventa una condizione necessaria del vivere comune, e non più un fattore alla mercé del mercato. 

Affinché ciò avvenga è però necessario un mutamento fatto di analisi e politiche precise. Ecco allora che, per esempio, politici ed esperti di economia in primis devono smettere di mandare messaggi contrastanti. Da un lato infatti dicono che un segnale positivo di uscita dalla crisi pandemica, e da quella economico-sociale ad essa connessa, è la ripartenza dei consumi. Dall’altro che la sostenibilità deve diventare prerogativa di tutti. Si tratta di due affermazioni che con difficoltà possono coesistere, e che anzi, ben si prestano a essere etichettate come greenwashing. La bulimia dei consumi, l’incremento dello scarto e la logica produttiva – del meno dura meglio è – che sta a monte; sono infatti tra le cause principali della distruzione ambientale. In questo contesto risulta quanto mai necessaria la nascita di un nuovo umanesimo, che rinunci ai valori assoluti della competitività, del profitto a ogni costo e della produzione indiscriminata

L’economia capitalistica deve lasciare spazio a un modello basato sulla consolidazione, piuttosto che sulla crescita. Mettendo in atto il concetto di limite, che sia esso produttivo, di consumo e di costi, e dando centralità ai beni comuni e relazionali. Con buona pace di chi sta facendo greenwashing cavalcando l’onda della sostenibilità; è giunto il tempo di riconoscere che sostenibilità vuol dire imparare a vivere in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici della Terra. Si tratta dell’unica vera tendenza che possiamo permetterci in futuro.

Carlo Petrini è gastronomo, scrittore, attivista. Nel 1989 ha fondato Slow Food, grande associazione internazionale no profit impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce in armonia con ambiente ed ​ecosistemi. Ogni giorno Slow Food lavora in 150 Paesi per promuovere un’alimentazione buona, pulita e giusta per tutti.

 

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