QUEI GATTI MERAVIGLIOSI

Nei cortili di un grande ospedale vittoriano vive una popolazione di gatti. Gatti di tutti i tipi, socievoli o invisibili, malconci o sanissimi, gatti domestici abbandonati, gatti inselvatichiti. Una giovane ricercatrice comincia a studiarli: diventerà una dei massimi esperti di comportamento felino. 

Il suo ultimo libro, Tutti i segreti del gatto, è fra i più attesi dell’autunno. In esclusiva per Aboca Life Magazine, ecco a voi un’anticipazione. Buona lettura!

Era la fine degli anni ottanta quando, giovane ricercatrice, mossi i primi passi di un’affascinante avventura. Si trattava di studiare il comportamento dei gatti domestici: come interagiscono tra loro all’interno di gruppi di individui sterilizzati e come comunicano con le persone. Oggi, più di trent’anni (e innumerevoli gatti) dopo, sto ancora vivendo quell’avventura.

Una cosa che ho imparato è che lo studio del comportamento dei gatti richiede un delicato – e a volte faticoso – equilibrio tra il rigore scientifico e l’insopprimibile passione per i soggetti di studio. Nel 1911 un pioniere della psicologia sperimentale come Edward Thorndike, nel suo Animal Intelligence, deplorò la “tendenza pressoché universale della natura umana a trovare il meraviglioso ovunque sia possibile”. Thorndike era convinto che questa inclinazione portasse inevitabilmente a distorsioni nella scelta di che cosa studiare e nell’interpretazione dei risultati. Altrimenti detto: uno scienziato che voglia studiare seriamente il comportamento animale deve rimanere il più obiettivo possibile e resistere a ogni costo alla tentazione di celebrare i propri soggetti di studio.

Quando iniziai il dottorato e intrapresi la mia ricerca, volevo fortissimamente scoprire qualcosa di nuovo sui gatti. Ma le parole di Thorndike mi riecheggiavano in mente, e sapevo bene che i miei studi, per essere considerati scienza “vera”, dovevano essere pianificati e condotti con la massima cura. Perciò raccolsi con diligenza i dati, trassi le opportune deduzioni e conseguii il dottorato nel più rigoroso e scientifico dei modi. Al tempo stesso, fin dal primo giorno e dai primi gatti, non ho mai smesso di meravigliarmi di fronte all’adattabilità, all’ingegnosità e alla resilienza di queste misteriose creature.

Questo libro narra di come i gatti domestici, discendenti dai solitari gatti selvatici nordafricani, siano riusciti a trovare case e padroni devoti in ogni angolo del mondo. Solo negli Stati Uniti, oltre quarantacinque milioni di famiglie ospitano almeno un gatto. Come è stato possibile? Come hanno fatto quei gatti, da selvatici che erano, a intrufolarsi nelle nostre case e nei nostri cuori, e a convincerci che dovevamo tenerli al caldo, nutrirli e coccolarli? La risposta è semplice: hanno imparato a parlare con noi. E hanno anche imparato a parlare tra loro, un fatto spesso dimenticato quando i gatti vengono messi a confronto con i cani nell’interminabile competizione su chi sia il nostro migliore amico. I cani discendono dai lupi, una specie sociale da cui hanno ereditato un sofisticato repertorio di modelli di interazione – in pratica, un manuale di conversazione fatto e finito. I gatti, invece, hanno ereditato ben poche abilità sociali dai loro antenati, gli enigmatici gatti selvatici, che solo di rado si trovavano faccia a faccia con i propri simili. Il loro viaggio è stato molto più lungo di quello dei comuni cani domestici.

Alla luce delle scoperte mie e di altri scienziati, questo libro mostra come i gatti abbiano arricchito il loro linguaggio originario, basato sugli odori, con nuovi segnali e suoni più adatti alla vita con gli esseri umani e con gli altri gatti. Nonostante il loro formidabile sforzo per comunicare in modo più efficace, fino a che punto comprendiamo davvero il linguaggio dei gatti (e loro il nostro)? Come ci vedono i gatti? Ci considerano i loro “padroni” o piuttosto dei grossi felini bipedi con un senso dell’olfatto deplorevolmente debole? Questo libro è un viaggio attraverso le conoscenze scientifiche che danno risposta a queste e a molte altre domande, e ha come protagonisti alcuni dei “gatti meravigliosi” che mi hanno accompagnata lungo il cammino.

La mia vecchia e malandata auto da studentessa squattrinata percorse scoppiettando la curva e l’ultimo tratto della salita. Mentre guadagnavo la cima della collina, dinanzi a me si materializzò l’imponente mole di un edificio: un ospedale vittoriano in mattoni rossi che si ergeva nel bel mezzo del nulla e sembrava uscito da un romanzo gotico. Varcai l’ingresso con l’auto e mi fermai guardandomi intorno. L’ospedale era stato aperto nel 1852, con l’inquietante denominazione di Manicomio della Contea. Al momento della mia prima visita, più di 130 anni dopo, era ancora in funzione, anche se adesso, più opportunamente, era chiamato Istituto Psichiatrico. Ma ciò che mi aveva condotto lì era l’attività che ferveva fuori dalle sue mura: ero alla ricerca di gatti da osservare.

Fu con qualche sollievo che incontrai il custode capo John che, con squisita gentilezza e disponibilità, mi fece fare una visita guidata della struttura. Mi raccontò che la famigerata popolazione di gatti dell’ospedale comprendeva individui rinselvatichiti del tutto intrattabili e gatti più amichevoli che si avvicinavano alle persone e le salutavano. Questa popolazione mista era conseguenza del fatto che l’ospedale, da molti anni e in virtù della sua posizione isolata, era un luogo in cui la gente del posto abbandonava i gatti domestici indesiderati. I primi esemplari si erano riprodotti tra loro e, in assenza di contatti umani continuativi, le generazioni successive erano divenute a poco a poco più diffidenti e scostanti. Nel frattempo, la popolazione si era arricchita di nuovi membri, per gentile concessione di proprietari scontenti che arrivavano in auto con il favore delle tenebre e si sbarazzavano dei loro poveri e ignari gatti domestici. Questi ultimi arrivati erano di solito i più amichevoli, freschi reduci dalle case degli uomini e ancora propensi a fare due chiacchiere con le persone di passaggio.

John non sapeva bene da quanti anni i gatti fossero lì, ma ci sono testimonianze del fatto che già negli anni sessanta le infermiere li nutrissero nelle pause tra un turno e l’altro. Furono fatti periodici tentativi di sterilizzare i gatti, ma era di una battaglia persa in partenza, dato l’afflusso costante di nuovi individui.

Quel giorno vedemmo molti gatti. Come John aveva preannunciato, alcuni erano in buona salute, tranquilli ed evidentemente abituati alle persone, e quando attraversavamo le zone in cui se ne stavano sdraiati al sole ci venivano incontro. Altri, invece, erano elusivi come fantasmi: facevi appena in tempo a intravederli con la coda dell’occhio e già non c’erano più.

La struttura ospedaliera era vasta e composta da edifici che si sviluppavano in direzioni differenti, creando cortili secondari; i gatti tendevano perciò a distribuirsi in sottopopolazioni distinte. Sotto gli edifici si estendeva un sistema di locali attraversati da grandi tubi riscaldati, che costituivano una sorta di rete di riscaldamento a pavimento. Questi locali erano collegati all’esterno attraverso bocche di aerazione che si aprivano nei muri di mattoni dei cortili ed erano i luoghi di riposo preferiti dai gatti. Mentre camminavamo, potevo scorgere musi pelosi e malconci che ci scrutavano da ognuna delle bocche di aerazione, insieme ad altri gatti sparsi per i cortili, speranzosi che prima o poi toccasse a loro. Da tempo cercavo un piccolo gruppo stabile di gatti rinselvatichiti – o, come vengono anche chiamati, ferali – da mettere sotto osservazione per i miei studi sulle interazioni tra gatti. La popolazione di questo grande ospedale comprendeva diversi gruppi del genere e alla fine di quella giornata, sulla via del ritorno, capii di aver trovato il luogo ideale per la mia ricerca.

Ma di gatti ce n’era una moltitudine, e i primi giorni alla ricerca del sottogruppo giusto da studiare furono a dir poco scoraggianti. Cominciai a perlustrare il territorio e a riportare, su figurine di gatto stampate, i tratti distintivi di ogni esemplare che incontravo, compresi i profili destro e sinistro e la vista frontale, in modo da avere una sorta di “foto segnaletica” felina per ogni individuo. Dopo qualche settimana, cominciai a farmi un’idea della popolazione: quali luoghi erano frequentati da quali gatti, quali gatti erano più vagabondi e quali tendevano a rimanere negli stessi posti. Prendevo anche appunti, e può essere di un qualche interesse rileggere oggi quegli appunti. Mentre la voce “Gatto della caldaia” recita: “nero e bianco, collare rosso, amichevole”, il “Gatto dell’elettricista” è descritto come “nero, grosso, con un collare bianco, ODIA LE DONNE”. In effetti, c’era solo una osservazione documentata di quel gatto evidentemente misogino.

Un po’ alla volta, mi feci un’idea della distribuzione dei gatti nell’ospedale, e la mia attenzione cadde su un gruppo di gatti che frequentava un piccolo cortile, dove ogni giorno, alla stessa ora, gli avanzi dei pasti serviti nei reparti venivano messi a disposizione dei gatti in trepida attesa. L’offerta regolare di cibo e i numerosi punti di riposo disponibili avevano fatto sì che alcuni gatti si stabilissero nel cortile, dando vita a quello che aveva tutta l’aria di un gruppo relativamente stabile. Dei cinque membri principali del gruppo, uno, che chiamai Frank, si allontanava spesso dal cortile per esplorare i dintorni, ma tornava sempre a mangiare insieme agli altri quattro. Scoprii che potevo contare sulla loro presenza quotidiana nel cortile e questo, insieme alla possibilità di osservarli da una ragionevole distanza, li rendeva i soggetti ideali per lo studio sulle interazioni sociali dei gatti che avevo in mente. Fu così che Betty, Tabitha, Nell, Toby e Frank divennero il mio primo gruppo di studio, un gruppo che conosceremo meglio nei prossimi capitoli.

Dopo avere cominciato a studiare i gatti dell’ospedale, mi misi alla ricerca di una seconda colonia di gatti ferali da mettere sotto osservazione. All’epoca lavoravo come assistente di ricerca presso l’Istituto di Antrozoologia dell’Università di Southampton, in Inghilterra. Un giorno venimmo a sapere di un gruppo di gatti che si era insediato negli scantinati di una scuola della zona. Il preside e i dirigenti scolastici volevano sbarazzarsi di loro e così fu organizzata una missione di recupero in collaborazione con un vicino rifugio per animali attrezzato per la cattura di gatti ferali inavvicinabili come questi. Arrivammo una sera, le auto piene di trappole per gatti (innocue per i malcapitati) e di scatolette di tonno. Un paio d’ore dopo, le trappole erano innescate e pronte a scattare.

Ce ne andammo, speranzosi che qualcuno dei gatti, quella notte, fosse abbastanza affamato da entrarci. I giorni successivi ci rivelarono molte cose sulla personalità dei membri della colonia. Alcuni furono facili da ingannare e opposero scarsa resistenza quando furono portati al rifugio e poi dal veterinario per essere disinfestati da vermi e pulci, vaccinati, sterilizzati e, naturalmente, sfamati e dissetati. Altri casi furono più ostici e richiesero una certa opera di persuasione. E poi c’era Big Ginger, come poi lo chiamammo. Il grosso muso rossiccio e malridotto continuò a scrutare per giorni e giorni da buchi e anfratti inaccessibili prima di soccombere al richiamo delle sardine in una notte buia. Alla fine li prendemmo tutti.

Anche se probabilmente non si sarebbero dichiarati d’accordo, Ginger e la sua banda di gatti ferali erano stati fortunati. Alcune femmine erano gravide, e poterono partorire e crescere i cuccioli nell’ambiente sicuro e confortevole del centro. Tutti i gattini trovarono casa: erano abbastanza giovani per socializzare con le persone. I gatti adulti, invece, erano troppo attaccati alle loro abitudini per ricominciare una nuova vita con gli esseri umani. Trovammo loro una sistemazione all’aperto, in una vecchia fattoria adibita a vivaio di piante. Ci venne concesso di costruire un capanno da usare come base e cominciammo a frequentare la nuova residenza quotidianamente per nutrire e osservare i gatti. I miei colleghi mi aiutavano a dare da mangiare ai gatti nei giorni in cui ero impegnata, ma, ogni volta che potevo, mi appostavo e osservavo la colonia per qualche ora, lasciando qualche scatoletta di cibo prima di andarmene. Diedi un nome ai gatti: Sid, Blackcap, Smudge, Penny, Daisy, Dusty, Gertie, Honey, Ghost, Becky e, naturalmente, Big Ginger.

Nei due anni successivi, le colonie dell’ospedale e della fattoria divennero la mia vita. Diffidenti e poco socializzati com’erano, i gatti si tenevano alla larga da me e badavano più che altro ai propri affari. Il che era esattamente quello che volevoperché mi permetteva di guardarli mentre facevano ciò che i gatti normalmente fanno quando stanno insieme ai loro simili.

Come scrisse Ernest Hemingway, “un gatto tira l’altro”E infatti in questo libro compaiono altri gatti, soggetti che ho incontrato nel corso degli anni e che mi hanno aiutata a comprendere meglio cosa vuol dire per i gatti vivere con altri gatti e con gli esseri umani. Nel mio lavoro di consulente comportamentale ho conosciuto molti meravigliosi proprietari con i rispettivi gatti: mi hanno insegnato parecchie cose sulla varietà di relazioni che le persone possono intrattenere con i propri animali. La signora Jones e il suo adorabile Cecil sono stati una di queste coppie, come vedremo nel secondo capitolo. Nel libro, di tanto in tanto, si affacciano anche i miei gatti di casa, con cui ho condiviso molti momenti della mia vita: Bootsy, Smudge, Tigger e Charlie. Sono forse i gatti che conosco meglio: quando si vive sotto lo stesso tetto di un gatto diventa più facile imparare il suo linguaggio, un po’ come quando ci si trasferisce in un paese straniero e ci si immerge nella sua lingua e cultura.

Nel libro fanno capolino qua e là alcuni degli indimenticabili gatti che ho conosciuto nel periodo in cui ho lavorato in un rifugio: Ginny, Mimi, Pebbles e Minnie. E poi Sheba, che ho ospitato a casa mia mentre cresceva i suoi cuccioli. Nel corso degli studi condotti durante il mio dottorato sui gatti dell’ospedale e della fattoria avevo capito quanto sia difficile la vita per i gatti nati in ambienti insicuri e nell’impossibilità di ricevere cibo e cure veterinarie adeguate. Dopo aver collaborato per qualche tempo con una struttura rifugio per trovare una nuova sistemazione ai gatti della fattoria, ero giunta alla conclusione che, per comprendere meglio i gatti e la varietà dei loro modi di vivere, avrei dovuto avvicinarmi al mondo dei rifugi per animali. Mi ero ripromessa di farlo, prima o poi, ma solo dopo circa trent’anni ho finalmente varcato la soglia del gattile della mia zona, ed è stata una rivelazione.

La sorpresa di arrivare di prima mattina e trovare una grossa scatola di cartone abbandonata davanti alla porta del rifugio. Aprirla e scoprire al suo interno un vecchio gatto infuriato e malconcio con le orecchie a brandelli o, con l’avvicinarsi della primavera, una cucciolata di gattini scheletrici e pulciosi. Questi gatti abbandonati mi hanno segnata profondamente, e hanno rafforzato la mia meraviglia e ammirazione per l’enorme resilienza dei gatti e per la loro capacità di trasformarsi da randagi di strada in affettuosi mici da compagnia nel giro di una settimana.

Nel libro c’è posto anche per una coppia di cani, Alfie e Reggie, che in momenti diversi hanno vissuto accanto a due miei gatti, Bootsy e Smudge. Sono un classico esempio di come cani e gatti possano imparare ad andare d’accordo gli uni con gli altri, oltre che con i propri simili e con le persone: un altro linguaggio da imparare per tutti quanti. Il grande ospedale in cui avevo studiato il mio primo gruppo di gatti chiuse nel 1996, pochi anni dopo che avevo conseguito il dottorato. Alla fine fu trasformato in un complesso residenziale di lusso. Cosa ne sia stato di tutti i gatti resta un mistero: mi piace pensare che abbiano trovato lì vicino un nuovo posto in cui insediarsi e rimediare di che vivere. Anche i gatti della fattoria furono poi trasferiti altrove. Nella nuova residenza era più difficile tenerli sotto osservazione, ma i miei studi erano giunti quasi al termine, e loro ebbero modo di trascorrere il resto della vita ben nutriti, sereni e soddisfatti: una condizione in cui dovrebbero vivere tutti i gatti.

Sarah Brown ha conseguito il dottorato di ricerca sul comportamento sociale dei gatti domestici sterilizzati mentre lavorava presso l’Anthrozoology Institute dell’Università di Southampton, nel Regno Unito. Da allora ha lavorato come consulente indipendente per il comportamento dei gatti, come consulente per l’industria dei giocattoli per gatti, e ha condotto ricerche e collaborato con diverse organizzazioni benefiche per gli animali nel Regno Unito. È autrice di The Cat: A Natural and Cultural History, che è stato pubblicato in tre lingue; co-autrice di The Behaviour of the Domestic Cat; e ha contribuito a The Domestic Cat: The Biology of Its Behavior

Sarah vive a Londra con la sua famiglia, il cane Reggie e i gatti Bootsy e Smudge.

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