RIPARARE IL CAPITALISMO

In Italia il 25% delle persone è a rischio povertà ed esclusione. Basterebbe questo dato per vedere i limiti del modello economico dominante: aumento delle diseguaglianze, consumo delle risorse, distorsioni nel lavoro. In più, fra inflazione e rischio recessivo, oggi siamo al centro di una crisi che imporrebbe un cambiamento. Perché, allora, non riusciamo a riformare il capitalismo?

 Inseguire teorie alternative e rivolgimenti radicali genera soltanto impotenza. Meglio, allora, guardare alla pratica quotidiana delle persone e delle aziende che stanno già lavorando per una nuova economia. E che già praticano una paziente, efficace “ecologia della riparazione”.

lavoro

Poche settimane fa è scomparso Bruno Latour e di certo ci mancherà perché di questi tempi sentiamo il bisogno di intellettuali capaci di pensare oltre gli steccati disciplinari. Tra shock energetici, inflazione alle stelle e rischi di recessione per un terzo dell’economia globale, mi torna in mente un suo testo del 2016. “Il capitalismo”, scriveva Latour, genera tra i suoi critici “un insopportabile senso di impotenza”. L’economia si è imposta, con la forza delle sue leggi, come la più “eterna e solida” delle discipline e il capitalismo, in quel miscuglio di destino e di hybris, sembra aver sottratto alla politica e al pensiero una delle loro caratteristiche più straordinarie, e cioè la capacità di aprire possibilità. “La politica è apertura di possibilità” è questa la lezione che oggi – incalzati dalla tempesta economica che minaccia di abbattersi a livello globale – bisognerebbe riscoprire.

Disfarsi di quel senso di impotenza cui allude Latour significa considerare che il capitalismo può essere modificato, riformato, riorganizzato non solo in forza di teorie alternative ma grazie al lavoro paziente di chi, sul piano della regolazione politica e sul terreno dell’azione economica, rivisita il dogma dell’accumulazione a ogni costo per concepire il business come forza positiva e redistributiva, uno strumento per creare profitto, certo, ma anche e soprattutto prosperità durevole e condivisa.

Il modello economico dominante ha ormai mostrato tutti i suoi limiti e i suoi effetti distorsivi, riconoscibili nell’aumento delle diseguaglianze, nelle contraddizioni delle nuove dinamiche del lavoro, nelle modalità estrattive di gestione e consumo delle risorse. Secondo l’ultimo rapporto Oxfam nell’ultimo anno sono “nati” un miliardario ogni 30 ore a fronte di 1 milione di persone a rischio povertà estrema ogni 33 ore. Mentre in Italia ISTAT ha recentemente pubblicato un rapporto sulle famiglie evidenziando come il 25% delle persone sia a rischio povertà ed esclusione e che il reddito medio sia ancora inferiore al 2007 a fronte di un aumento sensibile del costo della vita.

Come uscirne? Il problema è proprio lì: se restiamo in attesa di un sovvertimento integrale, restiamo vittime dell’impotenza, se invece ci mettiamo sulle tracce di esempi ed esperienze che ogni giorno costruiscono piccole porzioni di alternativa, forse ricollochiamo la capacità di incidere sul sistema economico in una cornice pratica tutt’altro che ideologica, ma decisamente radicale e fortemente attuale. Ce lo insegna la nuova generazione di imprese come le B Corp (Benefit Corporation) che si prendono l’impegno di creare valore per tutti i portatori di interesse e non solo per gli azionisti, ce lo insegna lo stakeholder capitalism dove ciò che conta non è la massimizzazione degli utili ma gli effetti dell’attività produttiva sulla società, sull’ambiente e sul territorio; ce lo insegna la grande tradizione dei beni comuni nella sua capacità di immaginare una gestione delle risorse che rivisiti le dicotomie stato/mercato, individuale/collettivo, pubblico/privato in nome della collettività e dell’interesse generale.

Massimiliano Tarantino (foto: Fondazione Giangiacomo Feltrinelli)

Se guardiamo al tessuto italiano di giovani imprenditori, startup, PMI, società benefit possiamo ricostruire la mappa di chi oggi contribuisce ad alimentare un nuovo ecosistema di soggetti economici che, con poca retorica e molta concretezza, promuovono un nuovo modo di fare impresa, più attivo, più consapevole, più responsabile. Emergono in questi anni i primi riscontri rispetto alle performance di crescita delle startup innovative a impatto sociale che mantengono standard molto vicini se non analoghi alle startup innovative incentrate sul business. Formule organizzative che rimettono al centro la dignità e la creatività umana; idee imprenditoriali che vedono nella tecnologia e nell’innovazione opportunità per i territori; economie della transizione digitale ed ecologica capaci di essere generatrici di occupazione di qualità.

Come emerge dal rapporto Euricse sulle comunità intraprendenti, realtà e imprese fondate sui pilastri dell’autorganizzazione, del beneficio comunitario e della partecipazione, il numero di Comunità Intraprendenti ha iniziato a crescere in modo esponenziale a partire dal biennio successivo alla crisi del 2008. “Questo dato” – si legge nel rapporto – “è particolarmente interessante perché conferma il fatto che di fronte a situazioni di crisi alcune comunità locali reagiscono attivamente attraverso la costituzione di forme organizzative generate dal basso, come quelle dell’Economia Sociale e Solidale, che rappresentano soluzioni alternative ai tradizionali interventi istituzionali di tipo assistenzialistico e alle forme organizzative della produzione centrate sull’impresa classica di tipo capitalistico”. Allo stesso modo il numero è tornato a crescere dalla fine del 2021, con particolare riferimento alle comunità energetiche e alle realtà che offrono servizi essenziali.

Non si tratta di svolte etiche in nome della “buona morale”, ma di un cambio di passo reso necessario dall’interdipendenza che le scosse di questi anni – dalla pandemia alla crisi energetica – hanno fatto inequivocabilmente emergere. Non è possibile trovare davvero riparo dalle cosiddette “esternalità negative”, a meno di non progettare una fuga su Marte o inseguire il sogno descritto da Mark O’Connell in Essere una macchina: una manciata di campioni del capitalismo intenti a emanciparsi dalle miserie della nostra vita mortale sulla Terra per fuggire letteralmente da un pianeta in fiamme, lasciare indietro tutto e tutti, vivere per sempre in una bolla di privilegio che si autoalimenta attraverso la spoliazione delle risorse comuni.

Oppure ci si può impegnare tutte e tutti in esercizi quotidiani di rammendo. Il pensatore postcoloniale Achille Mbembe l’ha chiamata “ecologia della riparazione”: “ci sono miriadi di piccoli esempi di comunità e di individui che cercano di rimettere insieme quello che è stato rotto. Una gran parte del mondo per restare vivo deve riparare qualcosa, riparare delle scarpe, una bicicletta, una macchina, una casa”. Ma anche un’impresa o un modo di concepire la produzione, la circolazione e la distribuzione della ricchezza, potremmo aggiungere noi. Non si tratta di rovesciare il sistema, ma di rammendare gli strappi perché non diventino voragini.

Massimiliano Tarantino è il Direttore della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e il Responsabile della Comunicazione Corporate e delle Relazioni Istituzionali del Gruppo Feltrinelli.

Nato a Trieste nel 1975, laureato in Legge, è giornalista professionista e lavora da più di vent’anni nel mondo della comunicazione e delle relazioni istituzionali: inizialmente come giornalista (Gruppo Espresso e RAI) e docente universitario, quindi come responsabile ufficio stampa, communication manager o responsabile attività di comunicazione istituzionale per realtà pubbliche e private (Regione FVG, Scuola Normale Superiore di Pisa, Telecom Progetto Italia, TelecomItalia). 

Questo articolo è apparso su The Huffington Post Italia, che ringraziamo. 

Aboca Life Magazine ha affrontato i temi della rifondazione del capitalismo per esempio qui e qui e qui. Al tema è dedicato questo libro di Massimo Mercati

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