VORREI ESSERE UN ALBERO

Stanca della frenesia e della violenza che imprigionano gli umani, una donna immagina di diventare una pianta. In armonia con sé stessa e con l’altro.

Del mondo vegetale ammira la saggezza, che esplora grazie alle opere di scrittori, pittori, maestri spirituali. Come sono diventata un albero  è un libro originale e divertente. Una canzone d’amore per piante e alberi.   

All’inizio era una questione di cosa avevo addosso. Volevo diventare un albero perché gli alberi non portano il reggiseno. Poi era stato qualcosa che aveva a che fare con la violenza. Mi affascinava il modo in cui gli alberi prosperano in penombra, in luoghi solitari, mentre il buio decideva per me le ore del coprifuoco. Mi piaceva il fatto che si nutrissero di cose ancora disponibili e gratuite – acqua, aria e luce del sole – e che non avessero mutui da pagare nonostante occupassero un terreno per tutta la vita.

Le mie vaghe fantasie sugli alberi cominciarono a prendere forma quando entrai nella mezza età e presi a soppesare i benefici della vita da freelance rispetto a quella del professionista, con tutti i vantaggi dello stipendio. Un’epifania mi aveva avvolto come un viticcio: gli alberi erano freelance o salariati? L’albero era un lavoratore a giornata, i suoi orari legati al ciclo della luce. Le vacanze, le ferie, i fine settimana, la pensione, i prestiti erano tutte novità degli ultimi decenni, consolazioni offerte ai dipendenti come me.

Così, quando ripenso ai motivi del mio distacco dalla normale vita di noi umani e al mio desiderio di diventare un albero, vedo che all’origine c’era la sensazione opprimente che il tempo fosse un bulldozer che mi schiacciava. Quando ho smesso di portare l’orologio al polso e ho tolto quelli alle pareti, ho capito che tutte le mie carenze – che mi sono resa conto di condividere con molti altri – derivavano dal fatto di non essere una docile schiava del tempo. Ho cominciato a invidiare l’albero, la sua disobbedienza alla frenesia degli esseri umani. (…)

Cominciai ad abbandonare i giornali, la televisione e ogni fonte di notizie, quelle capsule di tempo condensato e amplificato che avevano ormai ridotto la nostra vita a pallottole di attenzione. Le piante non facevano notizia perché non potevano provocare colpi di stato o dichiarare guerre e non consumavano notizie perché il loro mondo rimaneva insensibile ai cambiamenti di governo e ai risultati delle partite di cricket. A parte il tempo – non le previsioni, intendiamoci, quello spettacolo televisivo che ormai rasenta la comicità – il mondo delle piante era indifferente a ogni avvenimento, naturale o causato dall’uomo, al di fuori del proprio raggio d’azione. La giornata di lavoro mi anestetizzava, tanto che non riuscivo più a interagire con gli altri esseri umani, il loro ordine e i loro ordini. Il sottofondo di parole, l’incessante trasmissione di avvenimenti sempre e solo umani, sulla terra, nell’aria, sott’acqua, avevano generato in me una claustrofobia difficile da spiegare. (…).

Una volta, ne ero certa, uomini e alberi si muovevano allo stesso ritmo, vivevano seguendo lo stesso tempo. Per comprendere questo concetto, che naturalmente esisteva solo nella mia immaginazione, avevo cominciato a piantare degli alberelli per commemorare nascite e inizi.

Sumana Roy è una scrittrice e poetessa indiana. Insegna scrittura creativa all’università di Ashoka.

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