LA CRESCITA È FINITA, CAMBIAMO LA SCUOLA

Dopo essersi interrogato sulla transizione ecologica e sulla reale possibilità che avvenga, il professor Stefano Bartolini affronta per noi il tema cruciale della scuola. E lo fa da par suo: ribaltando il paradigma. 

Diamo per scontato che il sistema attuale sia l’unico possibile, mentre è figlio di condizioni storiche e sociali che non esistono più.

Come un secolo fa, quando l’economia era in crescita, la scuola “insegna” disciplina, competizione e possesso. 
Oggi però non genera produttività, ma ansia e disagio. 

Vogliamo continuare a formare i giovani per un mondo, quello della crescita economica, che non esiste più? Oppure è il momento di accorgerci che un’altra scuola è possibile e necessaria?

DISAGIO GIOVANILE

Il personaggio di Zerocalcare, nella serie televisiva Strappare lungo i bordi che spopola attualmente, è un giovane pieno di tic, fobie, manie e insicurezze. Sono il risultato delle frustrazioni e delle ansie della sua gioventù, tormentata da un costante senso di inadeguatezza e dalla perenne ricerca di indipendenza economica e identità sociale.

Una alluvione di statistiche conferma che Zerocalcare è una buona descrizione di molti dei nostri ragazzi e ragazze. E non è nemmeno tra quelli che se la passano peggio perché almeno lui prova a fare qualcosa, a differenza dei NEET (Not in Education, Employment or Training): i giovani che non studiano e non lavorano. Secondo il recente rapporto Censis in Italia sono 2,7 milioni (nel 2020). Nella classe di età 20-34 anni sono il 29,3% del totale (primato europeo), ovvero il 5,1% in più rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono addirittura il 42,5%, quasi il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro o nel Nord, che comunque sono già parecchi (rispettivamente il 24,9% e il 19,9%).

I disturbi mentali, soprattutto ansia e depressione, sono decollati tra i giovani. L′81% dei dirigenti scolastici di scuola secondaria di secondo grado segnala che tra gli studenti sono sempre più diffuse forme di depressione e disagio esistenziale. Il 76,8% pensa che gli studenti vivano in una fase di sospensione, senza disporre di prospettive chiare per i loro progetti di vita. Per il 46,6% l’atteggiamento prevalente tra i propri studenti è il disorientamento.

Numeri di questo genere non sono di certo solo italiani. La Gran Bretagna, gli Stati Uniti e la Francia, per esempio, presentano un quadro di disagio giovanile per molti aspetti ancora più inquietante. Dal canto suo l’Estremo Oriente non se la passa meglio. In Corea del Sud il suicidio è la prima causa di morte tra 10 e 39 anni (Kirk 2016). In Giappone le stime sul numero di hikikomori variano dallo 0,5 al 2% della popolazione. Gli hikikomori sono persone che decidono di isolarsi dalla vita sociale per lunghi periodi di tempo. In genere sono adolescenti e giovani adulti che non escono dalla loro casa o dalla loro stanza per anni e non hanno contatti con amici e familiari.

Questo quadro allarmante racconta che il sistema produttivo dei paesi industriali produce una valanga di scarti umani, nel senso che una gran fetta di giovani sembra così depressa, scoraggiata, disorientata da non provare nemmeno ad entrarvi (NEET, hikikomori). Peraltro, per quelli che vi entrano – o almeno ci provano – ansia, malessere e frustrazione sono esperienze frequenti. Insomma, il disagio dei giovani ha dimensioni spettacolari ed è crescente. Perché si è venuta a creare questa situazione? E come possiamo migliorarla?


A SCUOLA DI CHE?

La mia risposta è che la scuola svolge un ruolo cruciale nel determinare il malessere giovanile e cambiarla radicalmente può contribuire molto ad alleviarlo. A scuola si imparano molte cose importanti, che sono elencate nei programmi, e molte altre cose non meno importanti che non compaiono in nessun programma. Si tratta di cose che la scuola dà per scontate e che in realtà sono vere e proprie scelte che veicolano precisi messaggi formativi.

Tutto comincia il primo giorno di scuola: i bambini devono stare seduti e in silenzio per 5 ore, il che naturalmente è incompatibile con il benessere di un bambino di sei anni. Poiché i bambini sono abituati all’apprendimento attraverso il gioco – che implica parola e movimento – il messaggio che interiorizzano è dirompente per loro: per rendere bisogna soffrire. È il primo passo per la costruzione di una vita in cui saranno pronti a accettare lo sforzo e la fatica come parti normali dell’esperienza quotidiana.

A scuola si insegna anche un rapporto con il proprio tempo. La coercizione alla fretta generata da programmi estesi e scadenze martellanti impedisce la riflessione, che invece richiede tempo. Si impara ad usare il tempo in fretta, il che implica essere acritici. La scuola non richiede agli studenti profondità e spirito critico: richiede velocità, disciplina e superficialità. La scuola insegna anche che le motivazioni intrinseche non sono importanti. Infatti proporre agli studenti materie coinvolgenti non rientra tra gli obiettivi della istituzione scolastica. Gli studenti sono chiamati a studiare perché serve come mezzo per altri fini, ad esempio per evitare l’esclusione sociale o trovare un buon lavoro. Il messaggio è che non è importante fare qualcosa di interessante, ciò che conta è fare qualcosa che serva. La scuola è anche una scuola di relazioni, dove si impara a competere con i pari. Il sistema fa tutto il possibile per incoraggiare la competizione individuale tra studenti, a partire dai voti individuali. I lavori di gruppo – che promuovono la cooperazione – sono limitati o assenti. Il credo del nostro attuale sistema educativo è il successo individuale. L’altro messaggio relazionale che la scuola trasmette è la subordinazione ai superiori.

In sostanza la scuola è basata sulla stimolazione di disciplina, competizione e possesso. Il premio per gli sforzi competitivi è il possesso di un voto individuale. Questo modello venne concepito a cavallo tra il XIX e il XX secolo, quando fu progettata la scolarizzazione di massa. La scuola venne basata sul modello della doma degli animali: espropriazione del tempo, del corpo, disciplina. Una robusta dose di competizione, promossa da premi e punizioni, avrebbe indotto al duro lavoro. Nessuno spazio per motivazioni intrinseche, quali coinvolgimento e partecipazione. Si doveva studiare per ottenere la carota ed evitare il bastone, inclusa la minaccia della futura emarginazione economica e sociale.

Da allora sono state abolite le punizioni corporali dal menu del bastone, ma il modello scolastico nella maggior parte dei paesi europei è rimasto ancorato ai princìpi fondamentali di un secolo prima. La conseguenza è che le scuole stanno generando un’epidemia di ansia: circa il 55% degli studenti afferma di essere in ansia per test e verifiche anche se si sentono ben preparati, e il 66% afferma di sentirsi stressati dalla paura di voti bassi (OECD 2017). Questo tipo di formazione non è ovviamente mirato a produrre persone felici ma lavoratori disciplinati in competizione tra loro, funzionali alla crescita economica. Ai tempi in cui la scuola venne concepita, la ratio di questa scelta era l’enorme necessità di controllo sociale di una società che si andava industrializzando. Il suo obiettivo era formare operai. Per questo l’istruzione ha sviluppato la capacità di obbedire e annoiarsi, abilità molto apprezzate dall’industria. In cambio della loro disciplina i lavoratori ricevevano salari sempre più alti, resi possibili dalla crescita economica.


SCUOLA E INSODDISFAZIONE

Questa scuola è ancora funzionale al mercato del lavoro? C’è almeno una differenza macroscopica tra il mercato del lavoro attuale e quello che ha prevalso per gran parte del ‘900: le generazioni attuali non saranno più ricche delle precedenti. Ci eravamo abituati a lavori pagati sempre meglio di generazione in generazione e nell’arco di una generazione, ma tutto questo è finito. Infatti siamo entrati ormai da decenni in quella che gli economisti definiscono una “stagnazione secolare”, cioè bassa crescita di lungo periodo. La crescita economica è misurata dall’aumento del Pil e nei paesi industriali i tassi di crescita sia del Pil totale che di quello pro-capite sono diminuiti a partire dagli anni Cinquanta. Dopo i gloriosi 5-10% degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, i tassi di crescita sono scesi dagli anni Ottanta in genere al di sotto del 2% (medie annuali per decennio). Sono tassi di crescita definiti “quasi medievali”. In sostanza, i bei tempi della crescita vigorosa sono un ricordo del passato e non torneranno nel prevedibile futuro. Molta gente ormai se ne rende conto. Secondo il rapporto Censis 2021, l′81% degli italiani ritiene che oggi sia molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto l’investimento di tempo, energie e risorse profuso nello studio; il 35,5% è convinto che non convenga impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi con pochi soldi e riconoscimenti. Per due terzi, nel nostro Paese si viveva meglio in passato.

La crisi giovanile attuale è alimentata dal fatto che una formazione che punta tutto su competizione e possesso è disfunzionale a questo mercato del lavoro. Infatti tale formazione tende a produrre individui ansiosi, competitivi e conflittuali che non sono mai soddisfatti di quello che hanno, perché sono formati per sforzarsi, competere, avanzare. Insomma, la scuola educa a non accontentarsi. Le persone che produce sviluppano l’aspirazione a consumare sempre di più e la disponibilità a lavorare tanto a questo scopo. L’avanzamento economico si incarica di lenire le loro insicurezze e soddisfare le loro aspirazioni. In sostanza questa scuola è fatta per la crescita economica, cioè per un mercato del lavoro che offra opportunità di avanzamento economico. Gli infaticabili lavoratori e solerti consumatori che continuiamo a formare possono vivere bene solo in un contesto di crescita perché hanno bisogno di miglioramento economico per essere soddisfatti. Le vite frenetiche per cui prepariamo i nostri ragazzi hanno senso solo se l’economia promette l’avanzamento economico in cambio dello stress.

Questa promessa non è più credibile nell’epoca della stagnazione secolare. Per questo la formazione attuale produce frustrazione e disorientamento di massa. Gente allevata per possedere e competere è destinata alla frustrazione e al conflitto se la torta da spartirsi non cresce più. In un mondo in cui la competizione economica è ormai diventata un gioco a somma zero – qualcuno guadagna solo se qualcun altro perde – la formazione che impartiamo produce delusione e smarrimento. Essa genera una massa di perdenti e stressa tutti, vincenti compresi. Alla radice del disorientamento dei giovani c’è il fatto che sono formati per un mondo che non esiste più. Li stiamo preparando per il passato e non per il futuro.

L’impatto sui salari della fine della crescita non deve essere confuso con quello della diseguaglianza dei redditi. Politiche redistributive sono certamente in grado di attestare i salari su un livello più elevato ma senza la crescita economica il mercato del lavoro non può offrire salari crescenti nel tempo. Soltanto la crescita economica può generare la prospettiva di un continuo avanzamento economico.

Qual è il tipo di persone che possono vivere bene in un mercato del lavoro che non offre più tale prospettiva? Dovrebbero essere persone capaci di godersi la vita, di accontentarsi di ciò che hanno ed organizzarsi la vita al meglio possibile con quello. Persone insomma capaci di vivere la vita che possono vivere e non di passarla a rincorrerne un’altra. Dovrebbero essere più inclini alla cooperazione e alla condivisione che alla competizione, visto che ormai essa premia i vincenti con quello che toglie ai perdenti.

In sostanza in una società post-crescita la capacità di essere felici dipende da quella di godere di ciò che si ha e di costruire relazioni positive con gli altri, di sentirsi padroni del proprio tempo disegnando un equilibrio tra vita e lavoro funzionale al vivere bene. Dobbiamo formare individui che tendono ad organizzarsi con quello che hanno invece di dedicare le loro risorse ad avere di più. Perché questa è divenuta una mission impossible, destinata a produrre insoddisfazione e insicurezza di sé. E se anche la missione riesce, il prezzo è la frustrazione di qualcun altro. Una società competitiva è destinata ad essere infarcita di conflitti e delusione se la torta da distribuire non cresce. La dose di competitività che iniettiamo ai nostri ragazzi va drasticamente ridotta e sostituita dalla cooperazione.

UN’ALTRA SCUOLA

Esistono modelli scolastici consolidati e ben sperimentati per andare in questa direzione. Maria Montessori creò una scuola alternativa proprio nel periodo in cui veniva progettata quella mainstream. La scuola montessoriana era basata su partecipazione degli studenti alle decisioni, autonomia, creatività, associazione di apprendimento e motivazioni intrinseche come interesse, curiosità, piacere, scoperta. Una scuola, dunque, modellata come apprendimento cognitivo e sociale individuale e di gruppo, lavoro in gran parte scelto dagli studenti, materiale didattico adatto a questi scopi, assenza di voti e test, cooperazione tra gli studenti basata su aule multi-età, in cui i bambini più grandi aiutano i più piccoli.

L’eredità di queste scelte è immensa. Ci sono più di 60.000 scuole Montessori nel mondo, perché è una scuola che funziona. I bambini Montessori a confronto con quelli delle scuole tradizionali vanno meglio nei test di matematica e lettura (pur senza averne mai fatti), sono meno conflittuali quando giocano e tengono più conto della equità e della giustizia nei conflitti. Inoltre scrivono in modo più complesso e creativo, sono più cooperativi e connessi con la loro comunità scolastica. (Lillard e Else-Quest 2006).

Molti principi dell’approccio montessoriano sono stati progressivamente adottati dai sistemi scolastici mainstream dei paesi nord-europei, dove predomina ormai la didattica partecipativa. Essa è basata sul lavoro di gruppo su progetti comuni in cui sono gli studenti che fanno domande agli insegnanti e la relazione centrale nell’aula è quella tra gli studenti. Quando invece vengono usati i tradizionali metodi verticali gli insegnanti tengono lezioni frontali e fanno domande agli studenti, la cui attività principale è prendere appunti e leggere i libri di testo. La relazione centrale nell’aula è quella tra insegnante e studenti. I dati di centinaia di migliaia di studenti delle elementari, medie e superiori di decine di paesi mostrano che i metodi partecipativi sviluppano più di quelli verticali la capacità di cooperare, l’autostima, la disponibilità al volontariato e a partecipare alla vita civile (Algan, Cahuc e Shleifer 2011). Non sorprendentemente, metodi di insegnamento più cooperativi producono gente più cooperativa.

La conclusione è che l’economia attuale (e quella futura) richiede una scuola che per molti versi faccia il contrario di quello che sta facendo. La scuola dovrebbe insegnare a coniugare piacevolezza e produzione, un atteggiamento attivo nei confronti della propria formazione e del potere, essere padroni del proprio corpo e tempo, profondi e creativi, includere e cooperare. Invece spesso insegna ad annoiarsi, a subire passivamente il potere, a essere in conflitto con il proprio corpo e tempo, a essere superficiali e acritici, a escludere e competere.

A questo scenario di pressione sui ragazzi contribuiscono anche i genitori e i media. Benché ci siano segnali incoraggianti, visto che in tutti i paesi occidentali sono sorte associazioni di genitori che chiedono la riduzione dei compiti a casa, anche i genitori sono spesso soggetti a pressioni e ansie che trasferiscono sui ragazzi. A sua volta la pubblicità si incarica di formare fin da piccoli individui che non si accontentano mai e che vedono il comprare di più come la soluzione di ogni loro problema. Infatti la principale evoluzione del marketing negli ultimi 30 anni è che bambini e adolescenti sono diventati il primo obiettivo della pubblicità. Negli Stati Uniti, la spesa totale per la pubblicità diretta ai bambini aveva già raggiunto i 15 miliardi di dollari agli inizi degli anni 2000, 150 volte l’importo speso nel 1983 (Schor 2005). In sostanza i giovani si trovano in una società che cerca di fargli assumere sempre più precocemente il ruolo di produttori e consumatori, stimolandoli a raggiungere obiettivi che non possono più raggiungere. Una ricetta perfetta per la frustrazione di massa.

 
ASPETTANDO GODOT

La crescita è finita da decenni e da allora le classi dirigenti dei paesi industriali hanno reagito al suo declino implementando riforme finalizzate a stimolarla. Per esempio tutti i sistemi scolastici sono stati sottoposti ad innumerevoli riforme mirate a colonizzarli sempre più con una cultura della performance mutuata dalle imprese.

Queste riforme hanno il triste sapore dell’accanimento terapeutico: il cavallo della crescita continua a non bere. Continuiamo a preparare tutti per un obiettivo che non arriverà. Stiamo aspettando Godot, la crescita. Nell’interminabile frattempo di questa attesa, ci siamo trasformati in una società della crescita senza la crescita. Tale società ha gli svantaggi di una società della crescita, come stressare le persone fin da piccole per la performance, senza averne i vantaggi in termini di avanzamento economico.

Le prevedibili vittime di questa situazione sono i ragazzi. Il mondo degli adulti li grava di pressioni e aspettative ma non è in grado di rispondere alla domanda sul perché lo fa. Perché la risposta non c’è. Tutto questo non ha semplicemente più alcun senso. Non ha senso chiedere alle persone di essere fatte per una economia che non esiste più. Questa è una crisi culturale, una crisi di senso. Una crisi che riguarda il mondo degli adulti ma si trasforma in una crisi personale dei ragazzi. Visto che non riescono a raggiungere quello per cui si sono faticosamente preparati, la conclusione di troppi di loro è che sono proprio loro il problema; non gli adulti.

Il motivo principale dello smarrimento culturale della nostra società è il timore di rimanere privi di una prospettiva di progresso senza la crescita economica, perché per molto tempo il nostro immaginario collettivo è stato colonizzato dall’idea che progresso significhi poter comprare più cose. Ma anche una società post-crescita può progredire. Robert Kennedy in un celebre discorso del 1968 elencava tutto quello che il Pil non misura, dalla salute alla qualità della istruzione, dalla solidità delle relazioni familiari e sociali alla intelligenza dei nostri dibattiti, dalla giustizia dei tribunali alla eguaglianza. Concludeva che il Pil misura tutto, tranne ciò per cui la vita vale la pena di essere vissuta. Una società post-crescita può progredire su tutti gli aspetti sottolineati da Kennedy.

Lo aveva capito Keynes – il più importante economista del XX secolo – che un secolo fa immaginò l’economia del futuro come una economia post-crescita in continuo progresso (Keynes 1930). La descrisse come una economia dinamica tecnologicamente, che usa gli incrementi di capacità produttiva generati dal progresso tecnologico per diminuire la quantità di lavoro necessaria a produrre quello che consumiamo. Di conseguenza la gente avrebbe avuto molto tempo libero e lo avrebbe dedicato a coltivare passioni, interessi e relazioni. Il sistema scolastico sarebbe stato molto diverso, propedeutico a differenti valori sociali. La scuola avrebbe educato a godere della vita e non a sforzarsi (“to enjoy and not to strive“). “L’accumulo di ricchezza” non sarebbe stato più “di grande importanza sociale” e sarebbe stato considerato una delle “più sgradevoli qualità umane”.

Dovremmo prendere coscienza che la crescita è finita, che per certi aspetti (come l’ecologia) questa è una ottima notizia, e che la fine della crescita non impedisce di migliorare la condizione umana. Ma per questo scopo deve essere accompagnata da una transizione culturale simile a quella delineata da Keynes. Una società post-crescita per funzionare deve basarsi su una cultura del benessere che le nostre istituzioni scolastiche sono molto lontane dal fornire. Al suo posto forniscono una cultura dello stress. Una cultura che ci dice che lo stress è un modo di condurre le situazioni, guidare le persone, risolvere i problemi. Se non compiremo la transizione dalla cultura dello stress a quella del benessere la fine della crescita può sprofondare in sofferenze e conflitti, come sta già avvenendo.

La scuola può svolgere un ruolo cruciale nel promuovere questa transizione. Tutto questo non lo abbiamo ancora capito. Per questo la nostra crisi culturale si converte nella crisi dei nostri ragazzi. In una società come quella preconizzata da Keynes essi vivrebbero meglio. E anche gli adulti.

RIFERIMENTI
Algan, Y., Cahuc, P., & Shleifer, A. (2011). Teaching Practices and Social Capital. American Economic Journal: Applied Economics, 5, 189-210.

Keynes. J. M., Economic possibilities for our grandchildren, 1930

Kirk, D. (2016). What ‘Korean miracle’?‘Hell Joseon’ is more like it as economy flounders. Forbes

Lillard A. e Else-Quest N., Evaluating Montessori Education, SCIENCE, VOL 313, 29 SEPTEMBER 2006

OECD (2017), PISA 2015 results: students well-being (Volume III), http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/education/pisa-2015-results-volume-iii_9789264273856-en#page1

Rapporto Censis 2021, https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/La%20societaitaliana_2021.pdf

Schor, J. B. (2005). Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità. Apogeo Editore

Stefano Bartolini insegna Economia della Felicità ed Economia Politica all’Università di Siena. Ha pubblicato numerosi saggi su prestigiose riviste accademiche internazionali. Il suo Manifesto per la Felicità (Feltrinelli, 2013) è un long seller tradotto in 5 lingue. Collabora con la Waseda University di Tokyo e ha collaborato con importanti istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, l’OCSE e l’IPSP (International Panel on Social Progress). Per Aboca ha pubblicato Ecologia della felicità. Perché vivere meglio aiuta il Pianeta. Qui un approfondimento

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