CHE FREDDO CHE FA

Mentre, nell’ultima afa estiva, vi godete gelati e bibite ghiacciate: ricordate il buco dell’ozono? Negli anni Ottanta, l’accordo per l’eliminazione dei clorofluorocarburi (che ne erano responsabili) fu un successo mondiale. Rapido, efficace, condiviso da tutte le forze in campo, ovvero da scienziati, governi e mondo produttivo. 

Oggi, qualche decennio dopo, l’industria del freddo ha sempre un alto costo energetico e ambientale, ma ha anche indubbi vantaggi proprio dal punto di vista della sostenibilità.

E quindi, in questo e in tutti gli altri campi, come conciliare economia e ambiente? Per il professor Alberto Grandi, la parola chiave è “compromesso“. 

“Volete vincere la guerra o volete i condizionatori accesi?” All’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il Presidente del Consiglio Draghi pose questa domanda a tutti gli italiani. A gran parte degli osservatori parve evidente la natura provocatoria della questione, per come veniva posta dal premier, perché in fondo non si stava parlando di come rendere sopportabile la canicola estiva, ma dell’assurdità di sostenere militarmente l’Ucraina e al tempo stesso finanziare la Russia attraverso l’importazione di gas.

In realtà, non è la prima volta che l’industria del freddo assume un valore strategico all’interno di conflitti geopolitici più o meno estesi. Basti pensare agli enormi sforzi fatti dai Paesi dell’Intesa durante la Prima Guerra Mondiale per dotarsi di un’efficiente catena del freddo, in grado trasportare e conservare le ingenti quantità di cibo che arrivavano dagli Stati Uniti, con lo scopo di sfamare i milioni di soldati al fronte. Ma se un secolo fa la questione della sostenibilità non si poneva nemmeno, oggi tale aspetto risulta addirittura prevalente rispetto ai risvolti squisitamente economici e militari, quantomeno per un pezzo rilevante dell’opinione pubblica occidentale.

Il problema è che l’industria del freddo ha da sempre un impatto ambientale estremamente elevato. Produrre il freddo costa tanto dal punto di vista energetico e anche se negli ultimi decenni sono stati fatti enormi passi avanti per quel che riguarda le tecnologie utilizzate, questo è oggi l’elemento più critico per l’intero settore. Peraltro, le industrie che producono i frigoriferi furono tra le prime a finire sul banco degli imputati già nel corso degli anni Ottanta, essendo tra le principali responsabili del buco nell’ozono. La storia parte da molto lontano e merita di essere raccontata. Nel 1929 il chimico della General Motors Thomas Midgley Jr., sintetizzando per la prima volta i clorofluorocarburi (CFC), scoprì di fatto un prodotto miracoloso, che avrebbe rivoluzionato la tecnica del freddo. Contrariamente a fluidi refrigeranti pericolosi come l’ammoniaca o il diossido di zolfo, questi gas presentavano caratteristiche perfette: erano atossici, incombustibili, inodori e stabili. Essendo per giunta facili da manipolare, furono utilizzati anche come propellenti negli spray e come solventi. Così, per molti decenni nessuno si accorse di una cosa: che i CFC impoverivano lo strato d’ozono che ci protegge dai pericolosi raggi ultravioletti del sole.

Un enorme buco di ozono si era già aperto sopra l’Artico quando nel 1987, per sventare la minaccia di una catastrofe globale, le Nazioni Unite adottarono il Protocollo di Montreal sulla riduzione e l’eliminazione progressiva dei CFC. Il Protocollo di Montreal è stato il primo accordo ad essere ratificato da tutti i 197 Stati membri delle Nazioni Unite, per questo è considerato un successo della diplomazia ambientale. In qualche modo è il frutto della congiunzione ideale di diversi fattori: l’evidenza scientifica, la pressione della politica e dell’opinione pubblica, un messaggio efficace (c’è un buco sopra le nostre teste) e, non ultima, la cooperazione dell’industria, che ha riconosciuto l’interesse a fabbricare dei prodotti di sostituzione. Il risultato di questo enorme accordo planetario è che oggi il buco nell’ozono si sta riducendo.

Questa storia fa capire come ci sia un solo modo per affrontare il tema della sostenibilità ed è quello del compromesso. L’industria del freddo ci dimostra come le ragioni dell’economia e dell’ambiente possano convivere solo a condizione che nessuna delle due pretenda di schiacciare l’altra. La catena del freddo ha ancora oggi un impatto ambientale molto alto, nonostante il bando dei CFC, ma per contro permette di mettere in relazione mercati lontani, di rendere più efficiente e quindi più sostenibile la logistica. Senza il freddo avremmo molti più sprechi alimentari e saremmo costretti a consumare molta più energia per produrre beni deperibili, di quanta ne consumiamo per spostarli.

Anche se le trincee fangose della Prima Guerra Mondiale ci sembrano così lontane e prive di qualsiasi rapporto con la domanda iniziale di Mario Draghi, alla fine la questione è sempre quella: che prezzo siamo disposti a pagare per avere un mondo migliore da lasciare ai nostri figli?

Alberto Grandi (Mantova, 1967) è professore associato all’Università di Parma dove insegna Storia delle imprese e Storia dell’integrazione europea. È stato inoltre docente di Storia economica e Storia dell’alimentazione. È autore di una quarantina di saggi e monografie pubblicati in Italia e all’estero. 

Aboca edizioni ha appena pubblicato L’incredibile storia della neve e della sua scomparsa. Dalle civiltà mesopotamiche al frigorifero, dai cocktail all’emergenza climatica

Il suo libro Denominazione di origine inventata. Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani, uscito nel 2018, è diventato un podcast di grandissimo successo.

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