NON FAR FINTA DI ESSERE SANI

La sanità pubblica, lo sviluppo della ricerca, le grandi e piccole scelte etiche. Che cosa significa essere sani? Come funziona un pronto soccorso? Soprattutto: la medicina riesce sia a curare sia a prendersi cura?

Nell’accelerazione che la pandemia ha provocato, siamo tutti coinvolti nel pubblico dibattito su grandi questioni morali e politiche, che in passato avrebbero impegnato a lungo filosofi e scienziati. Mai come ora, sappiamo quanto sia importante la medicina. E quanto la connessione fra umani e natura comporti nuove responsabilità morali. Curare e prendersi cura di Jacob Stegenga è un libro fondamentale per capire temi, problemi e bias. 

Anticipiamo la prefazione di Paolo Vineis.

Il libro di Jacob Stegenga è molto più di un libro di filosofia della medicina; è infatti al contempo un’ottima introduzione (anche con dettagli tecnici) all’epidemiologia, all’inferenza causale e più in generale alla metodologia medica, e tratta anche di sanità pubblica, di diseguaglianze sociali, di medicalizzazione e di principi morali. È un libro di grande utilità per gli studenti di medicina desiderosi di approfondire molti concetti spesso trattati in modo superficiale all’università o addirittura assenti nella didattica, ma è anche una utile guida per l’operatore sanitario e per un pubblico più vasto desideroso di saperne di più su argomenti che la pandemia ha portato all’attenzione di tutti, come ad esempio da dove vengono le prove scientifiche, che cosa si intende per “oggettività della scienza” (che molto opportunamente Stegenga tratta dal punto di vista della responsabilità collettiva della comunità scientifica), su quali basi impostare il triage in un Pronto Soccorso in momenti di crisi, eccetera.

Insomma il libro affronta in modo lucido molti dei problemi filosofici associati con la pratica e con la ricerca medica. Uno in particolare voglio discutere qui, perché credo che intorno ad esso siano stati fatti passi avanti teorici negli ultimi anni, non interamente discussi da Stegenga: il problema della dualità tra medicina come scienza e medicina come cura, e più in generale il ruolo di analoghe dicotomie nel mondo attuale. La modernità si è infatti strutturata intorno a dicotomie come quella tra scienze della natura verso scienze dell’uomo, da cui è derivata una cascata di altre categorizzazioni che spesso si sono rivelate paralizzanti.
Stegenga, nel capitolo sulla definizione della malattia, si sofferma sulla definizione naturalistica della malattia (basata su un approccio esclusivamente scientifico e descrittivo) e quella normativista, che considera la malattia come un dannoso allontanamento da una norma fisiologica ideale. La dicotomia naturalistico/normativista ha le radici nell’Illuminismo: la separazione tra conoscenza scientifica e sapere umanistico, inclusa la definizione di norme etiche, ha infatti caratterizzato tutta la modernità e ha sicuramente ancora una sua validità. Confondere fatti e valori è rischioso da molti punti di vista; stabilire che cosa è la norma fisiologica può infatti corrispondere a un giudizio di valore che dimentica la diversità propria della biologia e dell’essere umano, con rischi di discriminazione o di oppressione: si pensi alla definizione dell’omosessualità come deviazione dalla norma, dunque come malattia. Oppure, accettare che giudizi di valore entrino nella conduzione di attività di ricerca ha conseguenze potenzialmente molto pericolose: il ricercatore non può anticipare i risultati delle sue osservazioni sulla base di un pre-giudizio; per esempio, si può legittimamente chiedere a un ricercatore di sospendere il suo personale convincimento sugli effetti dell’inquinamento atmosferico se conduce una ricerca su questo tema. D’altra parte il lysenkoismo è un chiaro esempio di scienza guidata da pre-concetti valoriali. Tenere i valori separati dalla pratica della ricerca è una buona norma di salvaguardia della società dalla cattiva ricerca. Su questi temi vi sono alcuni ottimi capitoli nel libro, in particolare l’ottavo, là dove si parla di “tattiche epistemologiche al livello sociale” per aumentare l’affidabilità (termine preferibile a “oggettività”) della scienza. Ma si può realmente dire che il medico possa tenere i valori separati dalla pratica clinica? Si pensi alle difficoltà concettuali e pratiche poste dal triage in Pronto Soccorso dei malati di COVID-19.

Il problema che qui voglio porre è quello sollevato da tempo da Bruno Latour, in particolare in un suo scritto sul “Parlamento delle cose”, che ora torna grandemente di attualità in riferimentomal COVID-19 e al cambiamento climatico.1

La natura globale dei cambiamenti cui assistiamo fa sì che uomini, animali e oggetti inanimati finiscano per essere un tutt’uno nelle complesse interazioni che caratterizzano il Pianeta. Si pensi alla definizione di Antropocene, che fa riferimento alla antropizzazione degli strati geologici. L’uomo non è più radicalmente separato dalla Natura, sia perché l’ha profondamente trasformata, sia perché la Natura retroagisce in modi imprevisti come nel caso di Sars-CoV-2. Nell’era dell’Antropocene, secondo Latour, uomini, animali e cose sono tutti coinvolti in grandi esperimenti collettivi, e “il laboratorio ha allargato i suoi confini a tutto il pianeta” 2

La grande novità emersa con il COVID-19 non è solo la scala del problema (non inedita) ma la rapidità con cui la pandemia si è sviluppata contestualmente alla risposta umana e allo sviluppo di ricerche e tecnologie volte a contrastarla. Assistiamo pertanto alla “Scienza in azione” (Latour) in tempo reale. Ci poniamo nell’arco di pochi giorni problemi morali e politici che un tempo impegnavano filosofi e scienziati naturali per anni, in una continua retroazione di sviluppo della ricerca, questioni morali, risposte parziali e nuove indagini scientifiche e tecnologiche (per citare un esempio: le fasce di età cui somministrare i vaccini).

Fino a ieri il trasferimento della conoscenza scientifica era lento, oggi è divenuto quasi istantaneo. Si noti bene, il trasferimento nella pratica non prescinde dalle necessarie cautele: non si sta verificando una indebita sperimentazione di massa (come sostengono i no-vax), bensì i vaccini sono stati diffusi dopo regolari sperimentazioni randomizzate su decine di migliaia di persone, e gli effetti collaterali vengono monitorati da agenzie come EMA e AIFA attraverso l’osservazione di milioni di vaccinati. Ma questo non toglie che vi sia una accelerazione e una fitta retroazione tra necessità di sanità pubblica, scelte politiche e indirizzi di ricerca.

E anche che il quadro concettuale stia diventando quello della One Health, cioè di un allargamento della prospettiva che va al di là della sola specie umana.
Il punto che Latour solleva è che non è più possibile appellarsi alla Natura come qualcosa di indiscutibile e che consente di trovare un accordo che si sottrae alle incertezze del dibattito politico e sociale (il presupposto naturalistico). Prendiamo l’esempio della genetica. Anche se la ricerca genetica può essere in sé asettica e spassionata, non si può negare che essa pone tanti e tali interrogativi da far sì che difficilmente i geni si possano definire soltanto degli oggetti: nel momento stesso in cui vengono citati nel dibattito pubblico sollevano questioni etiche in cui osservazioni e valori sono intrinsecamente legati. In ogni caso la Natura non è il benchmark cui appellarsi per risolvere problemi controversi, perché essa stessa è oggetto del contendere.

La scissione tra naturalismo e normativismo diventa ancora più obsoleta nel caso del cambiamento climatico. È vero che gli scienziati che indagano sul cambiamento climatico non devono anticipare le conclusioni delle loro ricerche in base a convinzioni preconcette (una norma di buona pratica), ma è anche vero che la posta in gioco è troppo alta per affidarsi agli abituali meccanismi di “libera ricerca” lasciata alle priorità stabilite dagli scienziati in base ai loro interessi teorici, per poi selezionare quelle conoscenze che possono essere utili alla mitigazione. Questo meccanismo di ricerca libera seguita da una selezione darwiniana delle migliori prove scientifiche è ormai troppo lento. Ma c’è di più: la stessa ricerca sul pianeta deve tenere conto che il pianeta non è soltanto un oggetto esterno di osservazione. Un po’ come nel principio di indeterminazione di Heisenberg, il clima cambia per gli interventi umani, compresi quelli di mitigazione, ed è pertanto un bersaglio mobile che richiede continui aggiustamenti nella pratica scientifica (tanto è vero che le stime dell’IPCC richiedono regolari aggiornamenti).

L’invito di Latour a vedere la connessione tra umani e non-umani nel contesto dell’Antropocene significa, sul piano scientifico, comprendere che l’interconnessione indica nuove responsabilità morali. Le azioni di ciascuno si riverberano non solo sugli altri ma sullo stesso pianeta. Nel recente dibattito sui vaccini in cui si sono viste contrapporre una visione libertaria (sostenuta per esempio da Massimo Cacciari e Giorgio Agamben) e il “principio del danno” di Stuart Mill (“la mia libertà è limitata dai danni che posso infliggere ad altri”) si è dimenticato che la responsabilità si estende anche all’ambiente nel suo complesso. Contrariamente a un atteggiamento genericamente liberale o libertario che incentra la discussione sulla autonomia decisionale dell’individuo, si può ribaltare il punto di vista e parlare di una entropia planetaria che come specie non solo non possiamo ulteriormente aumentare, ma dobbiamo sostanzialmente ridurre. Sappiamo che l’Earth Overshoot Day (il giorno dell’anno in cui le risorse disponibili della terra sono esaurite) viene di anno in anno anticipato, e questo corrisponde a un aumento dell’entropia complessiva. Ma l’estensione del concetto di entropia alla medicina può portare a un sostanziale cambiamento di prospettiva: si pensi alle diseconomie esterne della cattiva pianificazione urbana, con la creazione di periferie generatrici di frustrazione, conflittualità e patologia mentale. Si pensi al ruolo dei nuovi media, generatori di un enorme rumore di fondo, a sua volta responsabile di diffusi bias cognitivi, tra cui i movimenti no-vax.3

Il libro di Stegenga si inserisce in una tradizione nobile di ri-flessione filosofica analitica e si distingue per la chiarezza. Con questa tradizione bisogna interloquire introducendo qualche novità come quelle cui ho accennato.

1 B. Latour, Nessuna innovazione senza rappresentanza! “Un parlamento delle cose per i nuovi esperimenti socioscientifici”, in M. Bucchi (a cura di), Sapere, Fare, Potere. Verso un’innovazione responsabile, Rubbettino editore, 2006.

2 Ibidem.

3 D. Kahneman, O. Sibony, C. Sunstein, Noise, William Collins Publ., 2021. (ed. it. Rumore. Un difetto nel ragionamento umano, UTET, Milano 2021).

Jacob Stegenga è professore di filosofia della scienza e della medicina presso il Dipartimento di Storia e Filosofia della Scienza dell’Università di Cambridge. In precedenza ha insegnato negli Stati Uniti e in Canada. Fra i suoi libri, Medical Nihilism, uscito nel 2018; sta scrivendo un libro sulla scienza del desiderio sessuale. Su YouTube (PhiSci: Conversations about Philosophy and Science) intervista importanti filosofi e scienziati. 

Paolo Vineis, che firma questa prefazione a Curare e prendersi cura, è professore di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra.

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