IN SALUTE E IN MALATTIA

Una diagnosi, e la speranza sparisce dall’orizzonte. Come reagiscono Nicola e Nicolas? Con il rifiuto della rabbia, del rimpianto, delle metafore belliche troppo spesso associate al cancro. Scelgono, piuttosto, di vivere con pienezza e dignità il presente, finché un presente c’è.

Anche la seconda parte dell’intervento di Nicola Gardini sulla malattia del marito Nicolas (qui la prima parte) ci interroga su che cosa significhi salute, e quanta gioia e libertà possano riempire il tempo della malattia. “Finché morte ci separi”, e anche oltre.

Non siamo mai stati tentati dal vittimismo. Non abbiamo mai detto: “che ingiustizia”; né chiesto “perché?” Non abbiamo mai pensato che stessimo combattendo una lotta, non abbiamo mai considerato il tumore un aggressore. Nessuna metafora militarista è mai entrata nelle nostre bocche o nei nostri pensieri. Ricorderete forse un saggio di Susan Sontag, Malattia come metafora (1978), che si impegna a liberare il discorso sulla malattia dalle fin troppo diffuse metafore militaresche e belliche. 

Quel saggio ha più di quarant’anni, ma è ancora attualissimo, perché le metafore militaresche e belliche continuano a comparire nel linguaggio comune. Esempi freschissimi ce ne fornisce la pubblicistica sul COVID. Neppure i medici ne fanno a meno. Vi voglio ricordare il caso di Siddharta Mukherjee. Questo signore, famosissimo in tutto il mondo, ha studiato medicina a Stanford, Oxford e Harvard e oggi insegna alla Columbia University di New York. In un saggio di oltre settecento pagine, L’imperatore del male. Una biografia del cancro (tradotto da Roberto Serrai per Neri Pozza), che gli è valso il premio Pulitzer 2011 per la saggistica, ha raccontato, non senza una certa abilità narrativa, scoperte della tecnologia, svolte nell’arte della diagnosi e delle terapie, battaglie politiche, casi ospedalieri e, soprattutto, vite di individui che dalla metà dell’Ottocento si sono consacrati anima e corpo alla cura del cancro. Ebbene, il suo discorso sovrabbonda di quelle metafore militari e imperialistiche contro cui il saggio della Sontag ci metteva in guardia.

Lontani dai campi di battaglia, nella pace della nostra intesa, io e Nicolas abbiamo continuato a vivere la nostra vita. O meglio: abbiamo cercato di trovare il modo per restare padroni del nostro tempo.

Molta della vita umana è fatta di speranza. Noi proprio alla speranza dovemmo rinunciare un attimo dopo la diagnosi, o saremmo diventati schiavi dell’illusione. Privati della speranza, non fummo, però, disperati. Fummo più forti, più capaci di confidare nelle nostre forze: e, dunque, più lucidi, più determinati, più uniti.

Il tempo che ci restava si era improvvisamente accorciato. Ma si era accorciato rispetto a che cosa? Chi ci aveva mai assicurato che la vita di Nicolas o la mia stessa vita sarebbero durate ancora per molti anni? Intanto, eravamo ancora vivi; eravamo ancora insieme. E questo contava più di qualunque pronostico. Non aspettavamo la fine. Vivevamo il presente. Non era facile. Quando si toglie la speranza dalla vita, bisogna pensare la vita in un altro modo. Qualcuno non ci riesce, e precipita, appunto, nella disperazione, nel lamento. Io non ho sentito Nicolas lamentarsi una sola volta in quei diciotto mesi, neppure dopo una notte insonne, neppure dopo un nuovo aggravamento. Noi imparammo – e dovemmo impararlo molto rapidamente – a sostituire la speranza, che è promessa di una felicità futura, con l’impegno a vivere la felicità giorno per giorno, momento per momento, per minuscola che apparisse. Il senso della perdita diede luogo a un senso di guadagno continuo. E questo durò fino alla fine, nonostante lo sviluppo della malattia.

Imparammo anche un’altra cosa importantissima: a misurare diversamente il bello e il brutto della vita; a chiamare diversamente le cose. Lasciatemi citare un passo del mio libro Nicolas, che mostra che una malattia modifica, oltre che il funzionamento del corpo, quello della lingua:

“Come sta Nicolas?” Me lo domandavano in tanti. E come potevo rispondere a questa domanda? I criteri con cui ormai si dovevano misurare il suo star bene e il suo star male non potevano essere quelli di una volta, o quelli di chi non ha un tumore incurabile molto progredito. Una persona gravemente malata soffre sempre, ma la sua sofferenza non si presenta sempre con la medesima intensità o nella medesima forma. Sarebbe sbagliato, dunque, dire che sta sempre male. Dire che sta bene, d’altra parte, sarebbe un’assurdità. A volte sta un po’ meno male. Il meno e il più variano di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto. Non si dà continuità. Come comunicarlo agli altri? Come affezionarsi a una risposta qualunque, sapendo che rischia di non valere più già tra un minuto? Non potevo rispondere in termini assoluti. Potevo solo parlare rispetto a un altro momento di questa “vita presente”, non certo più rispetto a un momento di quella “vita passata”, quando il cancro non era ancora comparso. Ieri sera ha mangiato di più, e non ha vomitato. Dunque, bene. Oggi ha sorriso: dunque, benissimo. Oggi ha male dappertutto; però, verso sera, ha chiesto di fare due passi e siamo arrivati fino alla Source… Oggi ha voluto che gli preparassi la besciamella… Potevo raccontare questo? A chi interessava? Chi avrebbe capito? Tanti dettagli o notizie così futili in apparenza non avrebbero detto granché neanche agli amici più stretti. Quando si ha che fare con la malattia, si capisce quanto siamo generici ogni volta che parliamo del nostro stato fisico e mentale. In verità, occorrerebbe sempre descriverlo con un gran numero di parole, perché neppure la normalità perfetta, se esiste, si può esaurire in un avverbio, e anche dopo che si fosse detto moltissimo, ci sarebbe ancora moltissimo da aggiungere. Si finirebbe per annoiare gli altri e noi stessi, e per non vivere. Gli avverbi “bene” e “male”, forse, sono nati per consentire agli esseri umani di risparmiare tempo, comunque debbano sentirsi; e la letteratura, che infatti limita il più possibile l’uso degli avverbi, mettendo al posto loro vicende e riflessioni, sta per tutte le risposte esaustive che non ci è consentito dare nella pratica quotidiana. Come stai? Non c’è risposta mai che dica la verità, neanche quando si è, per così dire, sani. Come sto…? Andate in biblioteca e, se vi interessa veramente saperlo, leggete tutti i romanzi del mondo.

Nicola Gardini (foto di Mauro Balletti)

Non ci isolammo. Nicolas vedeva gli amici anche più volentieri che in passato. Solo dopo che tornammo dalle Maldive, ci chiudemmo in casa. A quel punto tutte le sue energie erano esaurite. Oh, la forza gli restava, ma non aveva più di che alimentarsi… Riposava molto e io curavo che il suo riposo non fosse disturbato. Però, quando si svegliava verso la fine del pomeriggio, parlava al telefono con gli amici e con la madre lontana. E non parlava della sua malattia. Si interessava a loro. Era rimasto gentile, premuroso, curioso (anche questa parola ha che fare con la cura), ed era ancora pronto a offrire consigli e suggerimenti.

La nostra intimità diventò perfetta. Ci capivamo, ci rispettavamo, ci sostenevamo a vicenda ancor più che in tutti gli anni passati. Lui sapeva che avevo ancora bisogno del suo sostegno. Ascoltava i miei progetti, ne discuteva con me. Io, però, non l’ho mai supplicato di non lasciarmi. Gli avrei dato una pena. Lui già aveva prolungato la sua vita di qualche mese, rispetto alle previsioni. Non avevo il diritto di trattenerlo. La malattia ormai gli rendeva difficile tutto. Se n’è andato quando più desiderava andarsene, soddisfatto di quel che avevamo compiuto, senza amarezza, a cinquantaquattro anni.

Devo sottolineare che Nicolas aveva un’autonomia eccezionale, quasi sovrumana. Lasciava che io mi occupassi della sua dieta e delle terapie, accettava che lo accompagnassi alle visite e alle sedute di chemioterapia (benché ogni volta mi dicesse di starmene a casa a badare alle mie cose), ma certamente non dipendeva da me. Il suo cuore e la sua mente continuarono a decidere in piena libertà fino all’ultimo. Vi potrei fare vari esempi di questa autonomia, ma lascio, se vi pare, che li ritroviate nel mio libro. Ora, con tutto che io creda che Nicolas avesse una tempra fisica e morale da eroe, soprattutto quando lo confronto con me o con alcuni amici, ritengo che ogni malato, anche il più infelice, il più arrendevole, il più debole, abbia la possibilità di mantenere una qualche autonomia, e che chi cura il malato – medici e familiari – abbia il dovere di incoraggiarlo ad averne una. Ogni malato, per limitata che sia la sua capacità d’azione, potrà sempre agire secondo intendimenti tutti suoi entro lo spazio della vita che gli resta.

Chi cura un malato, però, non è sempre capace di proteggere l’autonomia del malato. Io stesso ho cercato in molte occasioni di parlare e di agire e di scegliere al posto di Nicolas. Come ho già ricordato, ho dovuto imparare a osservarlo e ad ascoltarlo, e a obbedirgli. Io, per esempio, a un certo punto, quando il rene destro smise di funzionare (mancava meno di un mese alla morte), avrei permesso ai chirurghi di portarlo in sala operatoria; anzi, davo per scontato che l’operazione fosse necessaria e inevitabile. Nicolas no. Senza strepiti e senza esitazioni disse che andava bene così. Non voleva che l’integrità del suo corpo venisse meno. Per ottenere poi quale sopravvivenza? Era certo che l’altro rene avrebbe lavorato per due. Quella stessa sera, mentre io già cominciavo a immaginarmi quali inimmaginabili nuove sofferenze ci aspettassero, prenotò un volo per le Maldive.

Che cos’è, allora, la salute? Com’è possibile che Nicolas, tanto malato, tanto sofferente, la conservasse?

La salute è coscienza di sé. La salute è la capacità di tenere a bada le false aspettative; di limitare i falsi desideri, che possono derivare da nostalgia e da abitudine, e di esaltare l’appagamento reale, fosse anche ridotto al minimo; di scoprire il valore non di quello che si è perduto, ma di quello che c’è tuttavia. Neppure quando siamo sani, sappiamo o possiamo usare tutto quello che abbiamo. Malati, faremo lo stesso: usiamo solo una parte di noi, usiamo quel che decidiamo di usare. La salute è, appunto, la volontà di decidere per sé; è la volontà di volere; è libertà.

Nicolas è morto a casa, come voleva, come volevamo. È riuscito a evitare fino all’ultimo, nonostante i persistenti dolori e l’indebolimento progressivo, la carrozzina, il letto speciale o qualsiasi altro ausilio meccanico. Non si è neppure mai ridotto a vivere a letto, o in vestaglia. I suoi riposini avvenivano sempre sul divano, come prima della malattia. L’ultima mattina si è svegliato dal coma, si è alzato ed è andato in bagno a fare la pipì e a lavarsi, come sempre. E poi è tornato a riposare.

Nicola Gardini (1965) insegna Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford. Ha pubblicato saggi, alcune raccolte di poesia e traduzioni di classici come Ovidio, Marco Aurelio e Catullo. Tra i suoi libri: Così ti ricordi di me (Sironi 2003), Lo sconosciuto (Sironi 2007), Come è fatta una poesia? (Sironi 2007), I baroni. Come e perché sono fuggito dall’università italiana (Feltrinelli 2009), Rinascimento (Einaudi 2010), Per una biblioteca indispensabile. Cinquantadue classici della letteratura italiana (Einaudi 2011), Le parole perdute di Amelia Lynd (Feltrinelli 2014), La vita non vissuta (Feltrinelli 2015), Viva il latinoStorie e bellezze di una lingua inutile (Garzanti 2016), Con Ovidio. La felicità di leggere un classico (Garzanti 2017), Il tempo è mezza mela. Poesie per capire il mondo (Salani 2018), Le 10 parole latine che raccontano il nostro mondo (Garzanti 2018), Rinascere. Storie e maestri di un’idea italiana (Garzanti 2019) e Viva il greco (Garzanti 2021). Nicolas è uscito, sempre da Garzanti, nel maggio 2022. Il suo sito web è www.nicolagardini.com.

Questo intervento è stato letto a Roma a metà novembre, nel “Corso evoluzione Italia” dei farmacisti appartenenti alla rete Apoteca Natura. Titolo del convegno: Curare e prendersi cura. Qui la prima parte. 

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